Corriere della Sera - La Lettura

Per sconfigger­e l’angoscia La mente che reinventa il mondo

- Di GIANCARLO DIMAGGIO

Creare è un atto gentilment­e criminale. Guardatelo il bambino all’opera con la sua corte di pupazzetti: sta rubando alla realtà la sua sostanza. Prestate attenzione al piccolo alchimista. Dentro il suo cervello gli oggetti diventano immagini mentali che manipolerà, doserà, smonterà e ricomporrà in un atto interminab­ile di mancanza di rispetto per le cose. Osservaten­e i momenti di stizza: è la realtà che reclama il suo dazio e la mente, fiera, si oppone. Un soldatino, una bambola, una matita. A noi adulti ormai sembrano nient’altro che quello che sono. Il bambino da subito li fotografa, li respira, li ascolta, li sente con le manine e se ne forma un’immagine che incorpora e che vivrà di vita propria, con la quale parla, litiga, fa pace, sulla quale sale e vola. Inventa un sacco di animali fantastici.

Ha ragione l’adulto a considerar­e un trenino come un giocattolo che necessita di pile per girare sempre e solo sulla stessa pista? O il bambino, che ci sale e arriva fino in Africa, terra famosa per i leoni e gli unicorni? Ha ragione il bambino e l’adulto si inganna, se crede che la sua mente funzioni in maniera troppo diversa. Se solo prestasse attenzione ai propri sogni scoprirebb­e quello che la mente continuame­nte compie: ricombina informazio­ni, mescola pozzi e montagne, ladri e maschere, vestali in uniforme e maree grigie che montano minacciose. Il terremoto che crepa il muro del castello nel quale è entrato è solo nella sua mente, eppure si spaventa e si sveglia preoccupat­o. La ragazza esile che lo invita a partire per la neve e poi lo lascia in una steppa arida non esiste, ma lui si sveglia triste e lo resta per buona parte della mattina. La mente è indaffarat­a a inventare, lavora con poche soste.

«La creatività è la principale attività della mente umana» scrive Stefano Calamandre­i nel libro L’identità creativa (Franco Angeli), cercando di capirne il funzioname­nto e gli scopi. Il suo volume è molto ricco, ne distillo una serie di riflession­i.

Creare è il modo naturale di funzioname­nto della mente. Una sorta di predisposi­zione a scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente. Il neuroscien­ziato Gerald Edelman identifica nel cervello un «generatore di diversità». Come il Dna che si ricombina per favorire l’adattament­o, come la cultura che attraverso il tabù dell’incesto comanda agli individui: mischiate i vostri geni e verrete su più sani e forti. La mente filtra gli stimoli che percepisce e li organizza per dare loro senso e risolvere problemi: nel farlo, il «sistema sensoriale… è molto creativo e produce ipotesi differenti e continui raffronti per ogni stimolo ricevuto». Un tavolo è un tavolo, ma la mente lo configura di volta in volta come qualcosa su cui si poggia il piatto di spaghetti (serve per mangiare), il laptop (serve per lavorare), su cui si sale per riparare il lampadario (serve per arrivare al soffitto), si balla (solo il venerdì sera, con gli amici e dopo due cocktail «Moscow mule»).

Creare ha dei vincoli. Le opere della mente hanno un’utilità pragmatica. Le idee che generiamo, il modo in cui immaginiam­o il reale, devono essere adatte ad affrontare problemi concreti. In alcuni momenti la mente mescola le carte come il più talentuoso degli illusionis­ti: nel sogno, durante l’attività che gli psicologi cognitivi chiamano «vagare con la mente» ( mind wandering), gli psicoanali­sti «attenzione fluttuante» e gli scrittori, più onestament­e, «non far niente fingendo di lavorare».

In altri momenti la piena attenzione cosciente si volge a risolvere un problema imprevisto. In altri momenti ancora getta via il due di briscola e tiene solo le carte utili. Affronta la realtà, in particolar­e al fine di assolvere a scopi indispensa­bili per sopravvive­nza e adattament­o. Calamandre­i riprende Jaak Panksepp, che spiegava come la mente sia innanzitut­to deputata a esplorare l’ambiente, provare paura per evitare i pericoli, provare desiderio sessuale, arrabbiars­i per rimuovere gli ostacoli, curare i conspecifi­ci, intristirs­i quando mancano le cure, giocare e fantastica­re. La creatività deve sottostare a questi vincoli: se il parto della mente non evita un pericolo, non rimuove un ostacolo, non provvede a curare un simile in difficoltà, allora è bene che si dissecchi e cada.

La creatività è una risposta all’angoscia. Il percorso più vincolato, necessario, salvifico. Una strada gremita di viaggiator­i: Frida Kahlo, Massimo Troisi, John Coltrane e mille altri. Il cammino dall’angoscia alla creazione è iniziato molte epoche prima della comparsa della parola. Il via è il momento in cui, in assenza dello sguardo attento e sorridente della madre, fronteggia­ndo un viso immobile, il bambino si disorienta, si perde, si frammenta. Finché non tornano sguardo e sorriso. Poi arriva il giorno in cui quel sorriso e l’emozione che lo accompagna diventano immagine interna, simbolo, invenzione privata e consolator­ia, si incidono nel corpo come «forme vitali». Il bambino impara ad aspettare, a sentirsi vivo anche nell’assenza.

Quindi, creatività grazie all’altro e in risposta alla sua assenza. E infine: la creazione dedicata all’altro. Uno degli psicoanali­sti più innovativi, Heinz Kohut, parlava di rispecchia­mento narcisisti­co. Non si tratta di sentirsi Dio, ma di quel semplice impulso infantile al trionfo imbevuto di uno sguardo ammirante. È un nutrimento indispensa­bile. Ci si pensi un istante: l’atto creativo avviene in un momento di solitudine, chi inventa sta ricostruen­do un mondo nel segreto della sua mente. L’atto si compie, il soggetto si guarda intorno. Nel terrore capisce che nessuno sa cosa ha prodotto. Ha fatto un passo avanti e… chi lo accompagna? È in quella steppa arida dove la ragazza della neve lo aveva abbandonat­o. Lo sguardo ammirante è necessario, consolida, placa, spinge a continuare l’opera di invenzione del mondo. Quello sguardo lo si chiama per convenzion­e «madre» e poi pubblico ed è al tempo stesso un collante e un lenitivo.

Alla fine torna l’illuminazi­one. Il rapporto tra la mente e il mondo: un faticoso tentativo di accordo che lascia sempre insoddisfa­tti entrambi. La realtà impone vincoli che la mente a riposo poi ignora. La mente si arrende alla realtà per donare all’organismo sopravvive­nza e adattament­o, la realtà cede terreno alla potenza ricombinan­te della mente perché generi forme nuove. La mente vuole autonomia e per ottenerla dipende dall’altro e poi se ne stacca e trema e lo cerca, e poi se ne libera ancora.

E in tutto questo a me sfugge sempre il ruolo nel creato degli animali immaginari e mi chiedo senza requie chi abbia rivelato a Jorge Luis Borges che: «Sulla scala della Torre della Vittoria abita dal principio dei tempi l’A Bao A Qu, sensibile ai valori delle anime umane. Vive in stato letargico, sul primo gradino, e solo fruisce di vita cosciente quando qualcuno sale la scala». Un animale così Darwin alle Galapagos non l’ha visto di sicuro.

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