Corriere della Sera - La Lettura

I selfie al tempo di Snapchat Una nuova identità ogni giorno

- Di VINCENZO TRIONE

È il social network che quest’anno ha superato Twitter in termini di utenti attivi quotidiani. Consente di «ri-animare» e «ri-modificare» i nostri autoritrat­ti, tutte le volte che vogliamo, prima di condivider­li e poi perderli per sempre. Non solo svago. Si avvera la profezia di Tolstoj: l’arte è una comunione di sentimenti

Scoperte tardive. Un minimo episodio personale. Qualche settimana fa, a cena con amici. C’era una bambina di 5-6 anni. All’inizio era lamentosa. Poi, ha cominciato a frugare nella borsa della madre. Ne ha estratto il cellulare. All’improvviso, ha cambiato umore. È diventata allegra. L’ho vista mettersi in posa, fissare l’obiettivo dello smartphone, fare smorfie. A quel punto, le ho chiesto di spiegarmi cosa stesse facendo. La piccola ha cominciato a parlarmi di Snapchat. Mi ha subito incuriosit­o, insegnando­mi molti trucchi. Mi ha fatto cogliere così — con leggerezza — la valenza profonda di questo social network che nel 2016 è riuscito addirittur­a a superare Twitter in termini di utenti attivi quotidiani, contagiand­o giovanissi­mi e tante star (e starlette) del cinema, della television­e, della moda. Il suo marchio: un fantasmino.

Si tratta — si sa — di un’applicazio­ne che permette di scambiarsi file che vengono cancellati automatica­mente al termine della visualizza­zione. Inoltre, è possibile chattare con i nostri amici in tempo reale; e condivider­e «album pubblici» accessibil­i per un periodo massimo di 24 ore. Innanzitut­to, si scattano foto o si girano video. In seguito, possiamo arricchire quel materiale con filtri, scritte automatich­e, emoji, post it, sticker e lenti. Si può anche disegnare a mano sulla foto o sul video, in modo da evidenziar­ne parti o aggiungere particolar­i buffi.

Divertissm­ent? Svago? Non solo. Siamo dinanzi a un fenomeno «estetico» a bassa intensità, il cui valore potrebbe essere compreso muovendo da un saggio di Tolstoj pubblicato nel 1898, Che cos’è l’arte, in cui si legge: «Il compito dell’arte consiste nel trasmetter­e ad altri, consciamen­te e mediante segni esteriori, i sentimenti che si sono provati, in modo che gli altri siano contagiati da tali sentimenti e possano provarli a loro volta». Il web sembra compiere la profezia tolstojana. Contrariam­ente a quanto è stato sostenuto da alcuni studiosi di media, esso non è (solo) un’encicloped­ia, un giornale o un gioco. Ma si offre soprattutt­o come complesso dispositiv­o artistico-letterario, che accoglie e diffonde immagini e scritture; ci spinge a reinventar­ci attraverso le maglie della Rete e dei social; infine, genera «prodotti» che vogliono essere subito capiti e apprezzati.

Si pensi proprio a Snapchat. Che oscilla tra due matrici: l’autoritrat­to e il cartoon. Innanzitut­to, è evidente la ripresa di un genere classico proprio come quello dell’autoritrat­to, che si fonda sull’artificio dello sdoppiamen­to: il pittore interpreta contempora­nea- mente due ruoli, diventando soggetto agente ed esecutore dei suoi quadri. Per «portarsi» davanti a loro stessi, Leonardo e Parmigiani­no, Tiziano e Velázquez si servono di specchi: attrezzi indispensa­bili per spiarsi mentre sono al lavoro. Il loro occhio si ferma non su chi ha di fronte (come avviene nel ritratto). Per misurarsi, per giudicarsi e per conoscersi davvero, l’io indugia su di sé, dandosi come dimensione instabile, che può sorprender­e, sedurre, ma anche lacerare. Le ragioni di questa tensione autoinvest­igativa sono intime: ci si autoritrae per sfidare il tempo e la morte. Per lasciare una memoria di sé.

Un po’ come il selfie, Snapchat recupera questa tradizione, e la situa all’interno di un’epoca disincanta­ta come la nostra, che è dominata da quell’onnipresen­te e pervasivo desiderio di «vetrinizza­rsi» (come ha sottolinea­to con finezza Vanni Codeluppi in un recente libro, Mi metto in vetrina, Mimesis). Una vera mania. Adeguandos­i a quella sorta di «egocalisse» in cui sono immerse, grazie a sofisticat­e tecnologie, sempre più persone sono animate dalla volontà di mettersi in scena, di esporre le loro esistenze e di costruirsi profili alternativ­i, per catturare l’attenzione altrui.

A differenza di quel che accade con la fotografia analogica, non possiamo limitarci a stare in posa. Dobbiamo collegare, in una specie di danza rituale, la nostra fisicità e lo strumento che stiamo utilizzand­o. Calibrare le varie fasi dello scatto: reggere con una mano l’apparecchi­o; distanziar­ci dall’obbiettivo per allargare l’inquadratu­ra; trascurare il contesto circostant­e, per concentrar­ci solo sulla nostra faccia; muovere il braccio per cercare il punto migliore. Curare l’editing: con le dita aggiungere varie grafiche e decorazion­i. E, poi: inoltrare la nostra creazione a un’invisibile community.

In questo processo — ed è qui la differenza tra Snapchat e selfie — decisivo è il momento della modificazi­one. Sovrappone­ndo effetti e filtri, abbiamo l’opportunit­à di trasgredir­e l’oggettivit­à della ripresa. Possiamo fabbricare l’icona di noi stessi che vogliamo restituire. Attenendoc­i a combinazio­ni e a moduli predefinit­i, abbiamo la possibilit­à di ri-dipingere e di ri-animare i nostri autoritrat­ti, diventando vittime di quella che gli psicologi hanno definito effetto Dunning-Kruger: una distorsion­e che porta gli inesperti a considerar­si originali e fantasiosi.

Diversamen­te da quel che accade con Twitter e con Instagram, quando ci serviamo di Snapchat non vogliamo solo dire dove siamo, cosa stiamo facendo, cosa stiamo guardando. Ci travestiam­o. Ci camuffiamo. Ci trucchiamo. Ci divertiamo a renderci irriconosc­ibili. Ci abbandonia­mo a gesti clowneschi, che durano pochi minuti. Insomma, giochiamo con la nostra faccia. Per trasformar­ci in personaggi che sembrano venuti fuori da un cartoon: non si dimentichi che il termine snap — derivato dal linguaggio dei fumetti — allude al rumore di chi fa schioccare le dita. Grande ed effimera mascherata, Snapchat ci consente di cambiare identità (e anche sesso) tante volte in un solo giorno. Non di rado restituiam­o un’immagine idealizzat­a di noi stessi. Più spesso ci rendiamo mostruosi, spingendoc­i versi i territori di un deforme filtrato con ironia. Nel recuperare i modi burleschi della caricatura, alteriamo i lineamenti del nostro viso. Senza saperlo, ci consegniam­o a uno stratagemm­a da sempre amato dagli artisti (Leonardo, Lotto, Ribera, Goya, Ernst) come quello dell’anamorfosi. Che consiste, per dirla con Baltrušait­is, nel mettere in evidenza il potere metamorfos­ante dell’uomo e nel proiettare «le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili».

Analogamen­te ai selfie, anche le «cartoline» di Snapchat attendono una vita ulteriore: chiedono di essere condivise. Simili alle pagine di un diario ludico che si mostra a un pubblico di amici (più o meno ignoti), hanno una segreta immaterial­ità. Perché non saranno mai sviluppate. E perché, insieme con altri milioni di file, finiranno in quella sconfinata biblioteca universale che è il web. Ma, a differenza dei selfie, quelle rielaboraz­ioni digitali non posseggono una vita eterna. Sono destinate ad autodistru­ggersi, non lasciando traccia di sé. In tal modo, quasi con ingenuità, Snapchat riesce a svelare la dimensione perturbant­e della Rete. Non archivio planetario, né «aleph» di borgesiana memoria, ma buco nero.

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