Corriere della Sera - La Lettura
I selfie al tempo di Snapchat Una nuova identità ogni giorno
È il social network che quest’anno ha superato Twitter in termini di utenti attivi quotidiani. Consente di «ri-animare» e «ri-modificare» i nostri autoritratti, tutte le volte che vogliamo, prima di condividerli e poi perderli per sempre. Non solo svago. Si avvera la profezia di Tolstoj: l’arte è una comunione di sentimenti
Scoperte tardive. Un minimo episodio personale. Qualche settimana fa, a cena con amici. C’era una bambina di 5-6 anni. All’inizio era lamentosa. Poi, ha cominciato a frugare nella borsa della madre. Ne ha estratto il cellulare. All’improvviso, ha cambiato umore. È diventata allegra. L’ho vista mettersi in posa, fissare l’obiettivo dello smartphone, fare smorfie. A quel punto, le ho chiesto di spiegarmi cosa stesse facendo. La piccola ha cominciato a parlarmi di Snapchat. Mi ha subito incuriosito, insegnandomi molti trucchi. Mi ha fatto cogliere così — con leggerezza — la valenza profonda di questo social network che nel 2016 è riuscito addirittura a superare Twitter in termini di utenti attivi quotidiani, contagiando giovanissimi e tante star (e starlette) del cinema, della televisione, della moda. Il suo marchio: un fantasmino.
Si tratta — si sa — di un’applicazione che permette di scambiarsi file che vengono cancellati automaticamente al termine della visualizzazione. Inoltre, è possibile chattare con i nostri amici in tempo reale; e condividere «album pubblici» accessibili per un periodo massimo di 24 ore. Innanzitutto, si scattano foto o si girano video. In seguito, possiamo arricchire quel materiale con filtri, scritte automatiche, emoji, post it, sticker e lenti. Si può anche disegnare a mano sulla foto o sul video, in modo da evidenziarne parti o aggiungere particolari buffi.
Divertissment? Svago? Non solo. Siamo dinanzi a un fenomeno «estetico» a bassa intensità, il cui valore potrebbe essere compreso muovendo da un saggio di Tolstoj pubblicato nel 1898, Che cos’è l’arte, in cui si legge: «Il compito dell’arte consiste nel trasmettere ad altri, consciamente e mediante segni esteriori, i sentimenti che si sono provati, in modo che gli altri siano contagiati da tali sentimenti e possano provarli a loro volta». Il web sembra compiere la profezia tolstojana. Contrariamente a quanto è stato sostenuto da alcuni studiosi di media, esso non è (solo) un’enciclopedia, un giornale o un gioco. Ma si offre soprattutto come complesso dispositivo artistico-letterario, che accoglie e diffonde immagini e scritture; ci spinge a reinventarci attraverso le maglie della Rete e dei social; infine, genera «prodotti» che vogliono essere subito capiti e apprezzati.
Si pensi proprio a Snapchat. Che oscilla tra due matrici: l’autoritratto e il cartoon. Innanzitutto, è evidente la ripresa di un genere classico proprio come quello dell’autoritratto, che si fonda sull’artificio dello sdoppiamento: il pittore interpreta contemporanea- mente due ruoli, diventando soggetto agente ed esecutore dei suoi quadri. Per «portarsi» davanti a loro stessi, Leonardo e Parmigianino, Tiziano e Velázquez si servono di specchi: attrezzi indispensabili per spiarsi mentre sono al lavoro. Il loro occhio si ferma non su chi ha di fronte (come avviene nel ritratto). Per misurarsi, per giudicarsi e per conoscersi davvero, l’io indugia su di sé, dandosi come dimensione instabile, che può sorprendere, sedurre, ma anche lacerare. Le ragioni di questa tensione autoinvestigativa sono intime: ci si autoritrae per sfidare il tempo e la morte. Per lasciare una memoria di sé.
Un po’ come il selfie, Snapchat recupera questa tradizione, e la situa all’interno di un’epoca disincantata come la nostra, che è dominata da quell’onnipresente e pervasivo desiderio di «vetrinizzarsi» (come ha sottolineato con finezza Vanni Codeluppi in un recente libro, Mi metto in vetrina, Mimesis). Una vera mania. Adeguandosi a quella sorta di «egocalisse» in cui sono immerse, grazie a sofisticate tecnologie, sempre più persone sono animate dalla volontà di mettersi in scena, di esporre le loro esistenze e di costruirsi profili alternativi, per catturare l’attenzione altrui.
A differenza di quel che accade con la fotografia analogica, non possiamo limitarci a stare in posa. Dobbiamo collegare, in una specie di danza rituale, la nostra fisicità e lo strumento che stiamo utilizzando. Calibrare le varie fasi dello scatto: reggere con una mano l’apparecchio; distanziarci dall’obbiettivo per allargare l’inquadratura; trascurare il contesto circostante, per concentrarci solo sulla nostra faccia; muovere il braccio per cercare il punto migliore. Curare l’editing: con le dita aggiungere varie grafiche e decorazioni. E, poi: inoltrare la nostra creazione a un’invisibile community.
In questo processo — ed è qui la differenza tra Snapchat e selfie — decisivo è il momento della modificazione. Sovrapponendo effetti e filtri, abbiamo l’opportunità di trasgredire l’oggettività della ripresa. Possiamo fabbricare l’icona di noi stessi che vogliamo restituire. Attenendoci a combinazioni e a moduli predefiniti, abbiamo la possibilità di ri-dipingere e di ri-animare i nostri autoritratti, diventando vittime di quella che gli psicologi hanno definito effetto Dunning-Kruger: una distorsione che porta gli inesperti a considerarsi originali e fantasiosi.
Diversamente da quel che accade con Twitter e con Instagram, quando ci serviamo di Snapchat non vogliamo solo dire dove siamo, cosa stiamo facendo, cosa stiamo guardando. Ci travestiamo. Ci camuffiamo. Ci trucchiamo. Ci divertiamo a renderci irriconoscibili. Ci abbandoniamo a gesti clowneschi, che durano pochi minuti. Insomma, giochiamo con la nostra faccia. Per trasformarci in personaggi che sembrano venuti fuori da un cartoon: non si dimentichi che il termine snap — derivato dal linguaggio dei fumetti — allude al rumore di chi fa schioccare le dita. Grande ed effimera mascherata, Snapchat ci consente di cambiare identità (e anche sesso) tante volte in un solo giorno. Non di rado restituiamo un’immagine idealizzata di noi stessi. Più spesso ci rendiamo mostruosi, spingendoci versi i territori di un deforme filtrato con ironia. Nel recuperare i modi burleschi della caricatura, alteriamo i lineamenti del nostro viso. Senza saperlo, ci consegniamo a uno stratagemma da sempre amato dagli artisti (Leonardo, Lotto, Ribera, Goya, Ernst) come quello dell’anamorfosi. Che consiste, per dirla con Baltrušaitis, nel mettere in evidenza il potere metamorfosante dell’uomo e nel proiettare «le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili».
Analogamente ai selfie, anche le «cartoline» di Snapchat attendono una vita ulteriore: chiedono di essere condivise. Simili alle pagine di un diario ludico che si mostra a un pubblico di amici (più o meno ignoti), hanno una segreta immaterialità. Perché non saranno mai sviluppate. E perché, insieme con altri milioni di file, finiranno in quella sconfinata biblioteca universale che è il web. Ma, a differenza dei selfie, quelle rielaborazioni digitali non posseggono una vita eterna. Sono destinate ad autodistruggersi, non lasciando traccia di sé. In tal modo, quasi con ingenuità, Snapchat riesce a svelare la dimensione perturbante della Rete. Non archivio planetario, né «aleph» di borgesiana memoria, ma buco nero.