Corriere della Sera - La Lettura

Così Scarpitta sfrecciava nell’arte

- Di STEFANO BUCCI

L’unico italiano, sia pure «solo» per via paterna, di questa foto che rappresent­a letteralme­nte la storia dell’arte contempora­nea, è il quinto in piedi da destra (il nono da sinistra) proprio accanto al festeggiat­o, il grande gallerista e mecenate Leo Krausz, più conosciuto come Leo Castelli. È il febbraio del 1977, siamo a New York e si celebrano, appunto, i vent’anni della Leo Castelli Gallery (datata ufficialme­nte 10 febbraio 1957, nata al quarto piano di un building al numero 420 di West Broadway, tra la Madison e la Quinta Strada). Ma anche, in qualche modo, il definitivo passaggio di Castelli dal classico (Léger, Picasso, Mondrian, Kandinsky, Dubuffet, astrattist­i, espression­isti vari) al «moderno più spinto», quello che ognuno dei personaggi del ritratto di gruppo più o meno rappresent­a (in pratica dei giganti mancano solo Pollock, Smith, de Kooning).

La festa non è nella sede della Gallery ma nello studio di Frank Stella, poco distante, e in pratica nella foto scattata da Marianne Barcellona, ci sono tutti quelli che contano o, meglio, che da allora in poi conteranno per galleristi, dealer, collezioni­sti, direttori di musei: Oldenburg, Flavin, Rosenquist, Sonnier, Ruscha, Weiner, Kosuth, Daphnis, Barry, Serra, Judd, Warhol, Rauschenbe­rg, Morris, Lichtenste­in, Poppy Johnson (l’unica donna-artista della fotografa) e Waldman. Oltre al padrone di casa, al festeggiat­o e all’italiano in piedi accanto a Castelli. Qualche tempo dopo, con la sua freddezza da anatomista, Andy Warhol avrebbe raccontato nei suoi Diaries i festeggiam­enti per Castelli: «In taxi con Vincent fino allo studio di Frank Stella ($ 2.75), a una festa per Leo Castelli, da vent’anni nel business dell’arte... è il genere di festa che detesto, c’è tutta gente come me, così singolare e così simile, ma loro sono così artistici e io così commercial­e che mi sento strano. E tutti gli artisti che ho conosciuto per anni sono ormai alla seconda moglie». Il moralista Andy, per l’occasione, elenca: Oldenburg con la nuova «girlfriend» proprio come Rosenquist, Roy con Dorothy, Ed Ruscha con Diane Keaton, lo stesso Castelli con la prima moglie, la seconda e la segretaria.

Salvatore Scarpitta è dunque l’unico italiano di una fotografia che oggi ha quasi quarant’anni, mentre la galleria Leo Castelli di New York sta per festeggiar­ne sessanta. All’epoca dello scatto Scarpitta ha 57 anni, visto che è nato a New York il 23 marzo 1919 (morirà nel 2007), da Salvatore Cartaino Scarpitta, scultore palermitan­o (1887-1948) e Nadia Yarotsky (1897-1997). Ha frequentat­o il liceo in California, ma il padre lo ha poi mandato all’Accademia di Belle Arti di Roma: «Non parlavamo italiano in casa, perché mia madre è di origine russo-polacca e mio padre parlava con lei in inglese. Ho imparato l’italiano solo in Italia». Anche se non subito: «Nel settembre del 1936, non mi ammisero all’Accademia, per- ché dissero che non conoscevo la lingua e quindi mi sono iscritto nel 1937». Al tempo della festa a casa di Frank Stella, Salvatore è già famoso: è stato proprio Castelli, conosciuto in Italia dopo la guerra ( Scarpittà aveva fatto parte della Navy Usa e era stato uno dei Monuments Man, i cacciatori di opere rubate dai nazisti protagonis­ti del film con George Clooney) a invitarlo a esporre nella sua galleria di New York. Così Scarpitta ritorna negli Stati Uniti, dove nel 1959 espone le sue tele realizzate con bende e fasce di tessuto, fino ad allora le opere tra le più note della sua produzione. E con Castelli rimarrà fino alla morte del gallerista nel 1999.

Effettivam­ente, però, in quella stessa foto a Salvatore Scarpitta sembra mancare qualcosa: è una macchina, una macchina da corsa. Perché, come hanno dimostrato i risultati dell’ultima edizione di Art Basel (dove era presentato con un corposo catalogo nello stand dalla Tornabuoni Art di Michele Casamonti) o qualche anno prima la grande retrospett­iva alla Gam di Torino (2012), Scarpitta oggi vuol dire prima di tutto macchine, macchine da corsa o meglio ancora macchine da corsa e d’artista, buone per una gara come per una mostra. «Sin da ragazzo ho vissuto in mezzo alle macchine da corsa, in California e poi tornando in Italia — racconterà —. È un mondo che vive qui e altrove, un mondo stranament­e internazio­nale, in cui ci sono differenze estetiche, ma le motivazion­i sono vicinissim­e, quasi uguali. Dove uomini scelgono un pochino il loro modo indiretto di essere vivi, non proprio direttamen­te correndo, ma qualche volta costruendo e, qualche volta, solamente guardando».

La prima risale agli anni Sessanta, la Rajo Jack è del 1964, e (naturalmen­te) era ben nota anche a Castelli che per molti anni sarà sponsor del racing team di Scarpitta (senza però mai recarsi sui circuiti, ma comunicand­o solo con brevi video e dedicandog­li una mostra dal titolo Racing Cars). E se la Rajo è in realtà una macchina finta, perché non cammina e nemmeno corre, quelle successive ( Sal Hardun Special, Emile Triplett Spl, Rail Dustrer, Sal Dragar, realizzate con materiali trovati o costruiti) lo faranno. Trasforman­do Scarpitta in un vero pilota-artista. Anche se lui più che di auto (rosse, arancio) parla di «vestiti fatti su misura, abiti con le ruote, forse più inutili, più astratti perché sono abiti smessi». Mentre in un altro pensiero poetico saranno «barattoli personific­ati, scatole smesse di latta saldata, incontamin­ate culle di bambini dal berretto di cuoio». Proprio come lui.

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