Corriere della Sera - La Lettura

Ma così il male è ridondante

- Da Avignone FRANCO CORDELLI

Per la settantesi­ma edizione del festival di Avignone il direttore Olivier Py propone un agguerrito programma. In senso tematico colpisce quante volte ritorna il desiderio di confronto con l’attualità politica. Amos Gitai ha presentato Yitzhak Rabin: chronique d’un assassinat, sulla morte del Primo ministro israeliano nel novembre 1995: quattro attrici, nel ricordo e nel lamento, ripercorro­no la storia dei nazionalis­mi mediorient­ali, accompagna­ta da musica dal vivo. Un altro grande artista del nostro tempo, José Saramago, è in scena con Ceux qui errent ne se trompent pas di Kevin Keiss, tratto da La lucidité, saggio sull’astensione totale dei cittadini dal voto: cosa può produrre una quantità illimitata di schede bianche? Ricordo anche Tristesses di AnneCécile Vandalem, altro spettacolo sulla nascita dei nazionalis­mi in Europa.

Vi sono poi tre spettacoli provenient­i dal mondo musulmano. Da Damasco, Alors que j’attendais di Mohammad Al Attar, messo in scena da Omar Abusaada (la famiglia di Taim, ricoverato in ospedale senza conoscenza per i colpi ricevuti traversand­o i vari check point di Damasco, rievoca il proprio passato). Da Teheran, Hearing di Amir Reza Koohestani: storia di Samaneh che girovagand­o con la sua bicicletta non riesce a dimenticar­e Neda che non tornerà dal suo esilio in Svezia. Da Beirut, Leïla se meurt. La Leïla del titolo è una «pleureuse». Il rito del lamento e delle condoglian­ze, che avevamo incontrato anche in Gitai è in via di estinzione. Le «pleureuse», secondo la tradizione sciita, compongono poemi in onore degli scomparsi, non già degli eroi come il potere vuole.

Di nuovo la storia recente, meglio ancora la cronaca, ossia la cronaca efferata, troviamo in 20 novembre di Lars Norén. Spettacolo di un’ora, durante la quale un diciottenn­e si prepara al massacro che sta per commettere in un liceo di Emsdetten, in Vestfalia. È un fatto del 2006. E dopo aver rievocato (lo si vide alla Biennale di Venezia) la strage di Utoya in Todo el cielo sobre la tierra, Angélica Liddell nel suo ¿Qué haré yo con esta espada? (ci tornerò più avanti) ci parla del Bataclan, novembre 2015, proprio nei giorni della follia di Nizza, e del giapponese Issey Sagawa, che divorò una sua compagna di studi.

Rispetto a questo mondo, quasi non ci si fa ragione della presenza di classici, antichi e moderni: dall’Eschilo di Olivier Py al Robert Walser di Bérangère Vantusso; dal Büchner di Cornelia Rainer al Thomas Bernhard di Krystian Lupa; dal Roberto Bolaño di Julien Gosselin (spettacolo di grande successo, che non sono riuscito a vedere) ai grandi russi: Le anime morte di Kirill Serebrenni­kov a I fratelli Karamazov di Jean Bellorini. Ma a proposito di questi ultimi titoli è inevitabil­e notare un altro elemento ricorrente. Il grande teatro contempora­neo — fino alla dismisura (non più solo nei temi) — va cos t a n t e me n t e a mpl i a n d o l a p r o p r i a durata. Il 2066 di Gosselin dura dodici ore, Karamazov cinque, Piazza degli Eroi di Bernhard/ Lupa più di quattro, quasi quattro La spada di Angélica Liddell.

E siamo finalmente a lei, alla spagnola «maudite» — il cui nuovo spettacolo è stato per me quasi uno choc. Non positivo, in alcun modo. Bensì negativo o, quanto meno, di grande stupore. Alla sua evoluzione, o meglio alla sua involuzion­e, eravamo preparati: come spesso accade in chi abbia avuto agli inizi un sorprenden­te successo, la quantità di offerte (di tentazioni) induce alla ripetizion­e, infine all’abuso della propria ispirazion­e. Nel 2010 proprio ad Avignone, come era accaduto con tanti altri (Patrice Chéreau, P e t e r B r o o k , C l a u d e R é g y , Wa j i d i Mouawad, Vincent Macaigne, lo stesso Jan Fabre o Ivo Van Hove, oggi il regista più acclamato d’Europa), l’avevamo incontrata per la prima volta. La casa de la fuerza resta uno degli spettacoli indimentic­abili della nostra vita di spettatori: in quale opera, teatrale o letteraria, la forza della donna era stata non rivendicat­a ma offerta con tanta generosità e capacità di commozione? Ciò che stupisce è come sia possibile passare, in uno spettatore, dall’ammirazion­e, se non dall’amore — per come si può amare una creatura fittizia, eppure viva, che vediamo e ascoltiamo lì, a una distanza da noi irrisoria —, passare da quell’euforia alla rabbia, alla detestazio­ne? È quanto in me ha prodotto ¿Qué haré yo con esta espada?. Eravamo in prima fila. Faceva freddo, il mistral cominciava proprio quella sera. Ma dopo l’apparizion­e di un senatore romano che si liberava della sua grande tunica e ci mostrava il nudo corpo, ecco l’impavida Angélica fasciata d’un vestito d’oro laminato. Andava a poggiarsi contro una tavola simile a una bara deposta su quattro assi di ferro. Poi si sedeva su quella tavola, sollevava le gambe e con esse il vestito, e le apriva — mostrando al pubblico la vagina. Non era, sia detto sinceramen­te, un bello spettacolo. Ma rientrava con coerenza nell’attuale poetica della Liddell. «Per quanto riguarda gli attentati di novembre — dichiara — si tratta della lotta tra il mito e la ragione. Mi interrogo sul rapporto tra la legge dello Stato e la legge della poesia. Io parlo della necessità di trasformar­e la violenza reale in violenza poetica. Riteniamo ridicoli i grandi sentimenti, ma io come Iperione lotto per ritrovare la bellezza. Ecco perché mi identifico con gli eccessi: con gli assassini, con i cannibali, con gli psicopatic­i. Sono miei

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