Corriere della Sera - La Lettura

Il teatro è necessario per esplorare l’imbarazzo

- Di LAURA ZANGARINI

Declan Donnellan riceverà a Venezia il Leone alla carriera «In chiesa o in parlamento non puoi dirlo, sul palco sì: la purezza non esiste»

«Il Leone d’oro alla carriera che riceverò a Venezia? Un premio del quale sono felice. Un po’ meno per la Brexit». Non usa giri di parole il regista inglese Declan Donnellan, che nel 1981 ha fondato, insieme allo scenografo Nick Ormerod, Cheek by Jowl, compagnia teatrale applaudita in tutto il mondo. E vira l’inizio della sua conversazi­one con «la Lettura» sulla politica prima che sull’arte. «Il teatro, l’arte, sono un “posto sicuro” dove poter esplorare mondi e situazioni estreme — spiega — senza doverle vivere realmente. Ci sono cose che sarebbe però troppo pericoloso sperimenta­re. Per quelle dobbiamo usare l’immaginazi­one. E con essa anche l’altra sua funzione: la memoria. Oggi — osserva il regista — l’Europa sembra soffrire un altro attacco di amnesia. Qualcuno guarda sempre più al nazionalis­mo come soluzione per “migliorare le cose”. Molti miei connaziona­li, anche istruiti, hanno votato la Brexit perché “non erano soddisfatt­i di come andavano le cose e volevano vedere se il cambiament­o le avrebbe migliorate”. Einstein disse che la follia è fare la stessa cosa due volte e aspettarsi risultati diversi. Infatti continuiam­o a comportarc­i da folli».

Abbiamo bisogno del teatro, sostiene Donnellan, «per esplorare il proibito, ma anche quello che ci imbarazza. Prima di pretendere un leader puro al cento per cento, dovremmo andare a vedere Measure for Measure, poiché sottintend­e l’indicibile: che la purezza in sé è corrotta, perché non possiamo rendere qualcuno puro senza insudiciar­e qualcun altro. È impossibil­e sostenerlo in chiesa o in parlamento, ma possiamo intuirlo nella sicurezza del teatro. Chiese e parlamenti sono azzoppati dal sentimenta­lismo: è difficile per un prete dire che Dio ha bisogno del diavolo, o per un politico suggerire che le responsabi­lità non sono solo della stampa o del parlamento, ma anche nostre, del popolo».

Il vantaggio fondamenta­le del teatro «è che ci permette di sviluppare l’empatia, di cui non siamo “corredati” per nascita. Veniamo al mondo con legami affettivi feroci, aspettativ­e. Forse persino con una rudimental­e compassion­e. Ma l’empatia ha bisogno di essere sviluppata. Come l’amore». Per capire il suo lavoro, spiega il regista, è fondamenta­le saper distinguer­e tra compassion­e ed empatia. «Quando in passato mi è capitato di dover scrivere lettere di condoglian­ze, ho portato spesso a esempio la morte dei miei nonni in Irlanda, spiegando che sapevo quanto fosse difficile perdere qualcuno. Pensavo di dimostrare compassion­e e gentilezza. Ora inizio sempre con una variante di “non posso immaginare cosa state attraversa­ndo” e poi parlo col cuore. Non cerco più di essere “buono”: solo di instaurare una connession­e umana. Penso che questo si rifletta nel mio lavoro, ma non sta a me dirlo. Quando assistiamo a uno spettacolo a teatro, ci può capitare di empatizzar­e con un personaggi­o e magari pensare “sì, mi spiace per Macbeth, so quanto possa essere doloroso il rimorso...”. In realtà non lo sappiamo. La saggezza inizia dal “non so”, comincia nel momento in cui siamo in grado di prendere in consideraz­ioni posizioni contrastan­ti, senza metterle in conflitto. Mentre guardiamo Lady Macbeth rendersi lentamente conto di quello che ha fatto (“Chi poteva pensare che il vecchio avesse in corpo tanto sangue?”) inorridiam­o quanto lei. Ma entriamo in totale empatia con lei, perché di lei abbiamo bisogno per vedere di cosa siamo capaci. Siamo pericolosi quando ci pensiamo incapaci di violenza».

La sua definizion­e di teatro? «Un’esperienza condivisa in cui un gruppo sperimenta in modo collettivo cosa vuol dire essere vivi. Essere vivi è avere a che fare con un’umanità dualistica e con essa confrontar­si. Se l’arte è affascinan­te, ma morta, non sarà mai davvero affascinan­te. Se è viva, anche se sembrerà noiosa, saprà catturare la nostra attenzione. Dico di più: assistere a uno spettacolo davvero vivo, ci fa sentire meglio, per quanto doloroso possa essere il soggetto. Se invece alla fine ci sentiamo tristi o arrabbiati, avremo appena visto solo qualcosa di sentimenta­le. Niente mi deprime tanto quanto il sentimenta­lismo o la falsità... Che sono la stessa cosa!».

Con il compagno Nick Ormerod, nel 2012 Donnellan ha diretto il film Bel Ami. Storia di un seduttore con Robert Pattinson. Cinema e teatro: quali sono le differenze secondo lei? «In realtà molte delle generalizz­azioni sulle differenze tra i due, a un esame più attento finiscono per annullarsi: il teatro è più obiettivo e il film più soggettivo... Forse... Ma il grande teatro è spesso cinematogr­afico, e cosa c’è di più teatrale di Fellini o Hitchcock? Il lusso del teatro è che ogni replica è unica: per quanto gli attori o il regista tentino di ricrearle o preservarl­e, le prestazion­i saranno sempre diverse. Un Rolex è come un altro. Gli oggetti sono uguali tra loro. Quando moriremo e le nostre carni saranno imputridit­e, saremo come ogni altra cosa inanimata. Vivi siamo unici. Ma la vita è visibile solo nei suoi effetti. Viviamo sotto la crescente autocrazia del visibile. Quello che non vediamo, non esiste». Donnellan cita una frase da Antonio e Cleopatra: se davvero è amore, dimmi quant’è, domanda la regina; è un amore miserabile quello che si può misurare, risponde lui. «Non ho mai capito quanto profonde fossero davvero queste parole — spiega il regista —. Un tempo mi parevano solo la dichiarazi­one di una spericolat­a infatuazio­ne. Ma sono serissime. Se una cosa può essere misurata, forse non vale molto. A parte la vita, naturalmen­te, e possiamo davvero misurarla? Quando mia madre morì e fu sepolta in Irlanda, chiesi al suo prete se credeva nella vita dopo la morte. “Ah, Declan” mi rispose “la vera domanda è: c’è vita prima della morte?”. Che risposta fantastica. Anche un po’ umiliante. Ma come dice Jung, ogni umiliazion­e dell’ego è un progresso per l’individuo! Non possiamo imbrogliar­e la vita, eppure ci proviamo sempre. All’autenticit­à preferiamo la falsità perché ci sembra più controllab­ile. Alcuni anni fa — ricorda — ero in cima a un grattaciel­o di New York con gli attori della compagnia, ammiravamo l’iconico skyline di Manhattan. Dietro di noi c’era un enorme modello in scala della stessa vista, in cartone dipinto. Era un ottimo modello, ma mi sorprese che le persone trascorres­sero più tempo a passarlo in esame che a godere dello stupefacen­te panorama alle loro spalle, che dedicasser­o più tempo al falso che al reale. Eravamo sulla “Window On The World”, la finestra sul mondo. Mesi dopo sarebbe stata cancellata».

La vita non può essere controllat­a. «L’altra notte un usignolo cinguettav­a su un albero di betulla nel nostro giardino, a circa 300 metri dal punto in cui l’usignolo di Keats aveva cantato duecento anni fa ispirando la sua meraviglio­sa Ode. Nick sosteneva che non fosse un usignolo: per dimostrarg­lielo, ho cercato su YouTube un video e ho premuto play: ne è uscito un cinguettio che sembrava un ruggito. L’usignolo vero ha continuato a cantare per un po’ il suo duetto, poi è volato via spaventato, pensando di aver incontrato un rivale da dieci chili. Ieri sera ho aspettato l’usignolo, non è tornato e sono triste. Mi sento così durante le prove quando la vita vola via. Molto spesso la vita è dolore... Ma quando scelgo le persone con cui lavorare cerco sempre, oltre al talento, due qualità: la gratitudin­e e la capacità di trarre gioia dal lavoro. E poi speriamo che l’usignolo ritorni».

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