Corriere della Sera - La Lettura

Tramonta la stagione dei videoclip (lo prova anche la parabola di Mtv)

- Di MASSIMO SIDERI

Il videoclip Thriller di Michael Jackson, nella versione integrale da 13 minuti e 40 secondi, ha 337 milioni di visualizza­zioni sul canale Vevo di YouTube: una persona al mondo su venti lo ha visto, una percentual­e importante anche nell’era dei 2-3 gradi di separazion­e di Facebook. Oggi è un classico. Ma quando venne girato, nel 1983, fu così innovativo da cambiare per sempre la storia dei videoclip, anche se non fu scontato: al tempo la casa discografi­ca Epic non voleva investire quella che sarebbe stata una cifra record, un milione di dollari speso quando il milione ancora contava qualcosa (sono gli stessi anni in cui in Wall Street di Oliver Stone il co-protagonis­ta Buddy acquistava un attico sull’Upper West Side di Manhattan per 700 mila dollari). Fu Jackson a crederci: anticipò la somma e il risultato fu il primo video con qualità cinematogr­afica. Lo stesso artista, consapevol­mente, preferì definirlo cortometra­ggio e, in effetti, l’idea gli venne in mente guardando al cinema Un lupo mannaro americano a Londra. È per questo che Thriller sta ai videoclip musicali come House of Cards sta oggi alle serie televisive: segnò la nascita di un nuovo linguaggio, con una sceneggiat­ura completa, una coreografi­a costosa, vestiti di scena e grandi aspirazion­i (ben riposte visto che triplicò le vendite dell’omonimo Lp, 115 milioni di dischi in tutto). Il video è anche conservato alla Biblioteca del Congresso americano.

Quel linguaggio, che ha lasciato traccia nella cultura popolare di chi è cresciuto nei mitici Ottanta, non ha avuto vita lunghissim­a: non è un caso se l’ultimo bel videoclip che ricordate, se va bene, risale agli anni Novanta, se non agli Ottanta. La sua parabola coincise con quella di Mtv: domandarsi chi tra i videoclip moderni e Mtv aiutò l’altro è come porsi il quesito sull’uovo e la gallina. Proprio in questi giorni è finita anche in Italia l’era di Mtv Music in chiaro, che peraltro aveva abbandonat­o da tempo l’ambizione di essere un canale all music, mentre in contempora­nea Viacom ha importato un classico canale di videoclip Usa, Vh1, scivolato però, per ovvi motivi, sul tasto 67 del telecomand­o. Tutto in sordina, segno del disinteres­se. Se c’era bisogno di una certificaz­ione della fine di quella stagione, eccola.

La malattia che ha portato alla fine di Mtv è nota: internet e YouTube. Eppure, se oggi può sapere di vintage e nostalgia, si può dire che quel linguaggio, nel breve periodo in cui si è potuto manifestar­e, ha raggiunto la sua piena maturità. Un po’ camera di compensazi­one della scarsità dell’offerta artistica (quella dei Duran Duran degli esordi? Il video di Wild Boys fu accompagna­to anche da leggende metropolit­ane messe in circolo ad arte come quella che, per girarlo, Simon Le Bon avesse rischiato la vita), un po’ simbolo di chi, negandolo, voleva rivendicar­e il valore della propria musica (i Pearl Jam, in virtù del credo grunge, pretesero di non essere obbligati a seguire scelte di business).

Un altro fenomeno fu quello degli Mtv Unplugged, sorta di reality ante litteram con video che, confondend­o la gerarchia, a n t i c i p a v a n o i l d i s c o . Un o p e r t u t t i : Unplugged in New York registrato dai Nirvana il 18 novembre 1983. Il disco uscì postumo l’anno dopo visto che, nel frattempo, Kurt Cobain si era suicidato lasciando su un foglio un verso di Neil Young: «Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente». L’opposto del destino di Mtv. La registrazi­one di The Man Who Sold the World, canzone di David Bowie reinterpre­tata dai Nirvana quel giorno, ha 15,8 milioni di visualizza­zioni su YouTube. Seconda chance per nuove generazion­i o ansia del distacco per quelle vecchie, difficile saperlo. Lo stesso Bowie disse di essersi accorto di far parte della cultura pop ascoltando Cobain. Per inciso proprio il Duca Bianco fu il padre di uno dei primi videoclip moderni: Ashes To Ashes del 1980, da lui anche di- retto. Ma con Thriller tutto cambiò: c’è un prima e un dopo. Emersero registi specializz­ati e il campione fra essi fu Mark Romanek: riuscì a girare i due videoclip più costosi della storia — Scream di Michael e Janet Jackson (7 milioni) e Bedtime Story di Madonna (5 milioni) — ma non emerse mai al cinema nonostante avesse trovato l’illuminazi­one a 9 anni guardando 2001: Odissea nello spazio di Kubrick. A posteriori si può dire che nel 1995, con quella cifra monstre, finì il videoclip come opera faraonica: Britney Spears continuò a spendere senza entrare nell’immaginari­o collettivo. Mentre Romanek chiuse la carriera nel 2003 con Hurt, video struggente con un vecchio Johnny Cash che si difende con 21,7 milioni di visualizza­zioni.

La storia del videoclip vide anche grandissim­i registi prestarsi temporanea­mente alla musica: Martin Scorsese nel 1987 si mise dietro la cinepresa di Bad di Jackson, anche se sarebbe un delitto non citare Fat di Yankovic, parodia di Bad e della società americana dedita alla religione dell’hamburger. Lo stesso regista di Thriller era quel John Landis che nel 1980 aveva firmato l’intramonta­bile The Blues Brothers e nel 1994 Beverly Hills Cop III - Un piedipiatt­i a Beverly Hills III. Russell Mulcahy, regista australian­o nel 1984 di Wild Boys, due anni dopo fece il colpaccio con Highlander­L’ultimo immortale, altro cult (tutta la restante filmografi­a può essere ignorata). Mentre nella categoria grandi registi non va dimenticat­o David Fincher che tra Alien 3 e Seven diresse Express Yourself di Madonna e i Rolling Stones con Love Is Strong.

Negli anni Novanta sarebbe emerso prepotente­mente un altro genere, quello delle colonne sonore. Coda lunga del videoclip con il trucco: compariva il DiCaprio di turno, ma erano gli spezzoni del film. Gli accordi milionari c’erano lo stesso ma il linguaggio stava già cambiando diventando più simile a quello dell’era digitale, il copia & incolla.

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