Corriere della Sera - La Lettura
La riconquista della Colombia Giù le armi, ma la pace balbetta
La Colombia non è il paradiso, anche se il governo e le Farc, il più forte e antico movimento guerrigliero, hanno chiuso il conflitto che la affligge da quasi 70 anni. Eppure, per chi a lungo è stato prossimo all’inferno, quel che oggi accade pare un miracolo. Non sarà facile far sì che la pace pianti radici, anche se il presidente liberale Juan Manuel Santos, i leader guerriglieri e i mediatori cubani e norvegesi vi hanno investito tanto. I punti dell’accordo siglato il 23 giugno — dalla riforma agraria all’inclusione politica del partito che le Farc formeranno, dalla delicatissima distinzione tra crimini amnistiabili e violazioni dei diritti umani non prescrivibili al nodo di come ratificare l’intesa, se per via di una assemblea costituente come vorrebbe la guerriglia o per plebiscito popolare come vuole il governo — sono macigni sul cammino che andranno rimossi uno ad uno con tenacia e pazienza. Eppure pare improbabile, per non dire impossibile, che la Colombia torni indietro. Per più ragioni.
Innanzitutto, il contrasto tra la Colombia di ieri e quella di oggi impressiona. Appena 15 anni fa era una delle terre più violente del pianeta. Corruzione, guerriglia, narcotraffico erano di casa. Bastava citarla per suscitare sorrisini allusivi: era la terra della cocaina, famosa per Pablo Escobar e le sue gesta. Viaggiare via terra era sconsigliato: se s’incappava in un blocco guerrigliero si spariva nella selva in attesa del riscatto. L’epoca delle autobombe nelle città era finita ma lo Stato di diritto, nonostante le istituzioni democratiche, era una chimera: c’erano candidati presidenziali finanziati coi proventi della coca, trafficanti in Parlamento e nei media, istituzioni al soldo delle mafie. Ospedali e scuole erano per pochi e la miseria opprimeva la metà della popolazione. Infine c’era la guerra, tante guerre insieme: lo Stato era balcanizzato, i gruppi paramilitari combattevano la guerriglia e ne sterminavano i simpatizzanti, i gruppi armati spremevano risorse ai loro feudi e andavano a braccetto coi narcos. Milioni di colombiani abbandonavano le case, diventando rifugiati nel loro Paese. Non era un inferno, la Colombia?
Oggi la Colombia è così cambiata che, al di là della retorica sulla pace senza vinti né vincitori, salta agli occhi che la via armata non vi ha alcun senso. La guerriglia ha perso nella testa dei colombiani ancora più che sui fronti bellici. I dati parlano. L’economia si è aperta al mondo, ha attratto investimenti, ha iniziato a liberarsi dalla schiavitù delle materie prime. Risultato? Il prodotto si è moltiplicato per quattro in un decennio. Gli indicatori sociali lo confermano: i poveri sono tanti, ma milioni in meno rispetto agli inizi del secolo, il 30%. I ceti medi, da sempre rachitici, sono cresciuti di 2,4 milioni di unità negli ultimi cinque anni. Oggi sono la speranza di modernizzazione del Paese. Causa ed effetto della metamorfosi è stata la maggior sicurezza: frutto della dura offensiva militare del decennio scorso contro narcos e gruppi armati e del potenziamento dello Stato, più affidabile di un tempo. La «riconquista» del territorio e di spazi di libertà, prima occlusi dal terrore, ha dato respiro all’asfittica democrazia. Intanto, a consolidare la tendenza, è migliorato l’accesso al sistema scolastico e sanitario. Non è oro tutto ciò che luccica, si sa: il Paese rimane diviso, la qualità della democrazia precaria, troppo bassa è la produttività del lavoro. In più il ciclo economico favorevole è finito. Eppure la Colombia odierna è molto più solida di quella di ieri: basti notare che il fratello ricco d’un tempo, il vicino venezuelano, bussa oggi alle sue porte come un cugino povero.
Il conflitto colombiano viene da lontano e ha tante radici. Non solo: in un Paese dalle istituzioni fragili, ma sorretto da robuste reti familiari, ferree fedeltà territoriali, forti lealtà trasversali come quella per la Chiesa cattolica, i confini tra Stato, paramilitari, narcos, gruppi armati sono stati spesso labili. L’enorme scarto tra uno Stato debole e uno sterminato rono per «liberare» il loro Paese. Fu un disastro, l’ennesimo di quell’idea che spinse un’intera generazione a un’orgia militarista dalle conseguenze nefaste: la guerriglia fallì sul piano sia bellico sia politico; ma lo Stato colombiano evitò la caduta in una sanguinaria dittatura militare, come accadeva altrove. La Colombia rimase così in mezzo al guado: per quanto ridotta a un simulacro, la sua democrazia restò in piedi dinanzi a una guerriglia incapace di imporsi, ma capace di mantenere le posizioni acquisite. Così, quando negli anni Ottanta in America Latina tornò la democrazia e la via armata finì per manifesto fallimento, tragica sconfitta o negoziato con le autorità legittime, la Colombia rimase alla finestra: il marxismo della guerriglia non era più di moda, ma il conflitto s’era cronicizzato, non andava avanti né indietro. Un cul de sac.
A quel punto, però, negli anni Ottanta e Novanta, il conflitto con la guerriglia s’era fuso con quello ancor più violento col narcotraffico, al culmine della potenza. La Colombia toccò il fondo. Orfani delle utopie di un tempo e costretti sulla difensiva, i guerriglieri trovarono nei narcos l’àncora di salvezza. In molti hanno notato l’evoluzione della guerriglia in narcoguerriglia, ma pochi hanno colto l’humus ideologico comune a vertici guerriglieri, capi dei cartelli e leader cubani, uniti nel condurre gli scambi tra cocaina per il mercato statunitense e armi per i rivoluzionari. Ad accomunarli erano l’odio per gli Stati Uniti e le idee liberali e l’armamentario ideologico del nazionalismo panlatino.
La sfida di guerriglieri e narcos, tuttavia, spinse l’opinione pubblica a sancirne l’isolamento e a dare mandato al potenziamento dell’autorità statale per combattere entrambi. Il Plan Colombia, avviato da Bill Clinton e militarizzato da George W. Bush, riuscì nonostante le critiche a intercettare gli umori di tanti colombiani stanchi di un conflitto anacronistico. Tanto è così che molti di loro non vedono affatto di buon occhio che il presidente Santos abbia accettato di patteggiare con i gruppi armati, cui non riconoscono alcuno status politico e militare; come l’ex presidente Álvaro Uribe, l’uomo forte che più seguì contro le Farc la via militare, una parte dei colombiani pensa che la pace e le sue condizioni siano indebiti cedimenti al terrorismo.
Alla fine è probabile che la pace verrà ratificata. Si aprirà a quel punto una pagina nuova. Gli ex guerriglieri dovranno imparare la differenza tra armi e urne per cercare consensi. La democrazia, libera dal ricatto dei movimenti armati, dovrà diventare più inclusiva. In caso contrario, viste le enormi aspettative di un Paese in rapida trasformazione, la via populista chiusa nel 1948 potrebbe ripresentarsi. La guerra appena finita continuerebbe allora con altri mezzi.