Corriere della Sera - La Lettura

Il treno sospeso tra cielo e inferno

Il viaggio è estasi e etica, condivisio­ne del bello e del tragico Ho visto lusso e miseria guardarsi in faccia, con noncuranza

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Tra Bangkok e Singapore ho bevuto champagne su una carrozza che sferraglia­va tra strade allagate. Ho percorso la pampa su un pullman più accessoria­to delle fattorie che incontrava. Attraversa­re città non è solo il passaggio di una vita nelle vite altrui, ma scambio di tempo e di emozioni. Perciò ho smesso di fare foto

Sono passati quarant’anni dal mio primo grande viaggio. Ultimament­e ho attraversa­to l’Argentina, da Buenos Aires a Bariloche in un autobus executivo, un pullman tutto letto di fabbricazi­one italiana con sedili reclinabil­i fino alla posizione orizzontal­e, steward a bordo, pasti caldi e open bar. In venti ore ho percorso la pampa fino ai contraffor­ti delle Ande, immerso in un confort sconosciut­o alla maggior parte delle case che mi passavano davanti. Ho attraversa­to quartieri disfatti, borgate in stato di abbandono, incroci mercantili, fattorie grandi come nazioni. Ho visto sfilare paesaggi illuminati da soli radenti al termine di spaventosi temporali, come quando percorsi migliaia di altri chilometri a bordo dei miei primi Greyhound nordameric­ani. Di sicuro ora ho più soldi e più esperienza di quando avevo vent’anni. Ma anche meno foga e meno tempo. Così mi sono chiesto se pure la natura dei miei viaggi è cambiata. Evidenteme­nte la risposta è sì. È un male? Avrei dovuto, come i vecchi giramondo, continuare a partire come facevo in gioventù per conservare a tutti i costi la noncuranza che garantiva la naturale eleganza dei miei viaggi?

È un ricordo preciso che mi spinge senza sosta a cercare una risposta a questa domanda. Ho viaggiato da Bangkok a Singapore a bordo dell’Orient Express. Un treno di un lusso raro: un vagone-salotto tutto boiserie e velluti, con divani e poltroncin­e damascate. Un vagone-biblioteca in stile inglese, con profonde poltrone in pelle invecchiat­a. In coda al treno, un vagone-bar confortevo­le come la hall di un hotel, dove un pianista suona pezzi standard seduto a un pianoforte a coda e un barman in smoking bianco prepara Singapore Sling e Margarita. E, agio supremo, la seconda metà della carrozza è una terrazza a cielo aperto. È lì che ho passato la gran parte del viaggio.

Quell’anno, tuttavia, a Bangkok c’era stata un’inondazion­e e le autorità, per salvaguard­are i quartieri benestanti, avevano dirottato le maree e i klong, i canali, verso i quartieri diseredati. Quando il treno si è messo in moto, tutti noi, come convenuto, ci siamo ritrovati in «tenuta da sera» nel vagone-salotto, dove i camerieri ci hanno offerto champagne e pasticcini. È lì che ho scorto, da dietro le tendine preziosame­nte ricamate, una bidonville di baracche e capanne sommerse dalle acque torbide e gialle del Chao Phraya, tra le quali i binari si aprivano una strada appena più larga del treno.

Ovunque, nell’acqua fino alle anche, gli abitanti di quei quartieri disumani guardavano il nostro treno sfavillant­e lambire la loro miseria. M’immaginavo dall’esterno il treno illuminato dal lusso arrogante, con i suoi echi di un piano mondano, attraversa­re quell’oceano mu- to di desolazion­e e ingiustizi­a. Ho pensato alla scena di Amarcord di Fellini in cui, calata la sera, l’attrazione dei poveri è raggiunger­e il largo in barca per veder scivolare nella rada la massa illuminata e fiabesca del transatlan­tico Rex, con il suo carico di immaginari­o. Ovviamente mi sono domandato se avevo tradito gli ideali della mia giovinezza.

La risposta, crudele, è che i viaggi hanno il significat­o che noi stessi gli diamo, come la poesia che accordava bellezza e noncuranza alla carogna. Conservo ancora di questa traversata delle bidonville sommerse di Bangkok il gusto amaro di un lusso sfrontato, ma anche, lo confesso, l’indimentic­abile ricordo di una crociera silenziosa lungo la penisola malese inondata, alla luce delle stelle, come su un pontile mobile cullato dalla stucchevol­e oscillazio­ne della carrozza, con i binari in fuga scintillan­ti sotto la luna. Poi, al mattino, sporto dal finestrino della

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