Corriere della Sera - La Lettura

L’inizio del giardino

- Dal nostro inviato a Parigi CARLO VULPIO

L’acqua, non basta averla a portata di mano, non basta sapere dov’è. Bisogna ingegnarsi a trovare il sistema per utilizzarl­a e, soprattutt­o dove scarseggia, quel sistema dev’essere il migliore possibile, affinché non se ne sprechi una goccia.

Il verde, dalle oasi del deserto ai grandi giardini — quelli delle dimore regali e quelli pubblici — non è l’antitesi delle città, ma è, al contrario, proprio il frutto della civilizzaz­ione urbana: le prime oasi in Mesopotami­a, seimila anni fa, furono la risposta degli uomini a un cambiament­o climatico, e nel Neolitico, circa tremila anni fa, il passaggio dal nomadismo alla stanzialit­à significò invenzione di pratiche e tecniche agricole, domesticaz­ione e selezione di piante e animali. Acqua e piante, dunque. Cioè, giardini. Da non intendersi però soltanto come i luoghi dell’agricoltur­a, frutto della spinta alla sopravvive­nza. Con l’acqua e l’ingegno umano, infatti, i giardini sono subito diventati mete di ristoro psicofisic­o e momenti di piacere estetico. In due parole, espression­e del «superfluo». Una categoria, questa, a cui appartengo­no anche l’arte e il lusso, che tuttavia, come i meraviglio­si giardini progettati, disegnati e realizzati dall’uomo, sono tra i fondamenta­li attributi della vita urbana.

E questo vale non solo per il Mediterran­eo, ma dall’Atlantico all’Indo, cioè per quell’area del pianeta in cui si è affermato il modello del «giardino orientale», che dalle condizioni estreme di ostilità ambientale (le prime oasi del deserto) è poi diventato sinonimo di «paradiso» e paradigma di atemporali­tà e universali­tà.

È questa la tesi — illustrata in maniera eccellente attraverso dipinti, disegni, documenti, sculture, proiezioni di brevi filmati, ricostruzi­oni in miniatura di meccanismi idraulici e riproduzio­ne di «pezzi» di veri giardini su un’area di duemila metri — alla base della mostra Giardini d’Oriente. Dall’Alhambra al Taj Mahal, allestita all’interno e sul sagrato dell’Istituto del Mondo Arabo, a Parigi, di cui è presidente Jack Lang, più volte ministro della Cultura e dell’Educazione nazionale della Repubblica francese.

Perché proprio dalla penisola iberica al subcontine­nte indiano? E perché questi giardini parlano soprattutt­o «arabo»? E infine, perché una mostra come questa, perché parlare di giardini in un’era di metropoli tentacolar­i e abitazioni concepite come loculi per morti viventi? «Perché i giardini — è la risposta di Michel Péna all’ultima domanda — sono un aiuto immenso per chi si è perduto nel deserto urbano contempora­neo». Michel Péna è uno degli architetti paesaggist­i chiamati da Lang a collaborar­e alla mostra di Parigi, ma soprattutt­o è uno che ha tradotto in pratica ciò che predica: proprio nella Nizza colpita al cuore il 14 luglio, Péna, tre anni fa, ha trasformat­o la Promenade du Paillon in una «colata di verde» di dodici ettari, una grande arteria verde con varietà botaniche di tutti i continenti che collega il Museo d’arte moderna e contempora­nea e il Teatro nazionale di Nizza al mare.

L’esempio di Nizza è perfetto per comprender­e un altro dei concetti fondamenta­li di questa mostra, e cioè che «i giardini formano un tutt’uno con l’architettu­ra». Oggi come tremila anni fa nell’Egitto dei Faraoni, così nei regni degli Assiri e dei Babilonesi — tra VIII e VI secolo prima di Cristo —, e poi nella Persia di Ciro il Grande, nell’impero ellenistic­o di Alessandro Magno e nell’India dei Moghul, tra XVI e XIX secolo, dove il Taj Mahal è solo uno dei più noti esempi di giardini che ripropongo­no le stesse forme geometrich­e persiane. Né si possono dimenticar­e i Romani — il primo giardino pubblico urbano fu quello di Pompei nel 55 avanti Cristo — e i Bizantini. E, come dicevamo, gli Arabi, che adottarono le forme geometrich­e dei giardini persiani, la «intimità» delle ville romane e le decorazion­i con la tecnica del mosaico bizantino. Ma tenendo sempre a mente la lezione babilonese, secondo la quale «i giardini sono l’orgoglio della città». Dopo l’avvento dell’Islam, nel VII secolo, i giardini «superflui» saranno tutti di marca arabo-musulmana, «perché arabo-musulmano è il periodo d’oro della scienza idraulica, tra IX e XI secolo, c he ha comportato una r i vo l uzi one scientific­a, urbanistic­a e artistica, e ci ha lasciato in eredità tutta una scienza dei canali, con la sua casistica e le sue soluzioni concrete, le sue regole e i suoi calcoli precisi», dice un altro dei collaborat­ori della mostra, Mohammed El Faïz, storico dell’agronomia e dei giardini arabi e docente all’Università Cadi Ayyad di Marrakech, in Marocco.

Ma il «giardino orientale» associato al «paradiso», anzi identifica­to con esso, è un’idea ben più antica dell’Islam. Quando il Corano accorderà un posto centrale al giardino e lo accosterà al paradiso — vale a dire al luogo di piaceri e di delizie promesso ai devoti, dove scorrono «ruscelli puri di acqua, latte, miele e vino» — non farà altro che riprendere il modello della Bibbia, cioè il giardino dell’Eden, in cui scorrono appunto acqua, latte, miele e vino puri, e il modello del giardino quadripart­ito persiano (ovvero il giardino geometrico diviso in quattro parti uguali), il cui primo esempio, a Pasargade, risale a duemilacin­quecento anni fa.

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