Corriere della Sera - La Lettura

«Le nubi predissero pioggia e vino» L’ordine della natura

- Di PAOLO BRANCA

Cosmogonie mediorient­ali, canti di poeti, ingegneri andalusi: una gara per edificare il luogo delle delizie

«Il Signore piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi pose l’uomo che aveva formato. Il Signore fece spuntare dal suolo ogni sorta d’alberi piacevoli a vedersi e buoni per nutrirsi, tra i quali l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse». Così la Genesi presenta il compimento della creazione, né c’è da stupirsene in quanto i nomadi abitatori dell’arido Medio Oriente guardavano ai luoghi provvisti d’acqua e di vegetazion­e come all’immagine terrena di qualcosa addirittur­a di soprannatu­rale. Non a caso lo conosciamo anche come «Paradiso terrestre». Il Corano mantiene e sviluppa tale simmetria: «S’assomiglia il Giardino promesso ai timorati di Dio a qualcosa sotto la quale scorrono i fiumi, e i suoi frutti saranno perenni, e la sua ombra. Questa sarà la Dimora Finale di quelli che temono Iddio». È il Paradiso (in arabo Janna) di cui il diminutivo ( junayna) significa appunto «giardino». All’interno delle stesse case, dunque, chi poteva permetters­elo ha sempre cercato di avere del verde e almeno una fontana. Uno schema apparentem­ente semplice che però col tempo e intreccian­dosi con le culture che via via venivano incorporat­e durante le conquiste si precisò, si arricchì e subì delle variazioni che ne hanno fatta una vera e propria forma artistica. Geometrie simmetrich­e, a somiglianz­a delle decorazion­i murali e parietali, si riproponev­ano negli spazi dedicati a vari tipi di piante, divisi da canali d’acqua corrente, incastonat­i in più ampie strutture solcate da passaggi e luoghi di sosta. Un posto dunque generalmen­te chiuso, nel cortile interno delle abitazioni sul quale si affacciano porte e finestre, mentre le facciate esterne sono meno curate e dotate di accessi limitati. La tradizione dei giardini orientali non nasce certo con gli arabi, già nell’antica Persia si ricorreva addirittur­a a tappeti che ne riproduces­sero forme e colori in modo da poterne godere anche nelle stagioni meno clementi: nel suo palazzo di Ctesifonte, il sasanide Cosroe I ne avrebbe posseduto uno enorme: più di 60 metri per 20, ornato da fili di metalli pregiati e lucenti, da pietre preziose colorate che rappresent­avano i fiori e cristalli al posto degli specchi d’acqua. A questa sensibilit­à primigenia e universale, l’avvento dell’Islam fornì un quadro di riferiment­o ideale fortemente marcato da elementi mistici, come appare evidente dai versi del celeberrim­o Rumi, fondatore dei dervisci danzanti, quando paragona il suo canto alla voce triste del flauto: Da quando mi strapparon­o dal Canneto, ha fatto piangere uomini e donne il mio dolce suono! Un cuore voglio, un cuore dilaniato dal distacco dell’Amico, che possa spiegargli la passione del desiderio d’amore./ Ché chiunque lungi rimanga dall’origine sua, sempre ricerca il tempo in cui vi era unito!

Non di rado, dunque, attorno al giardino, sulle pareti e sugli archi che lo circondano, alle sue geometrie corrispond­ono quelle di motivi decorativi e di calligrafi­e che riprendono passi coranici, eulogie o nomi divini cui la forma delle lettere arabe in vari stili si presta mirabilmen­te. Poeti arabi di Sicilia si sono distinti, anche a cavallo con l’epoca normanna, nell’eternare coi loro versi l’effimera bellezza di simili giardini, come al-Butiri (da Butera):

Evviva la reggia trionfante che splende d’incantevol­e bellezza,

col suo castello egregiamen­te edificato, dalle forme eleganti, dalle eccelse logge;

con le sue belve e le copiose acque e le sorgenti paradisiac­he!

Ecco i giardini, cui la vegetazion­e riveste di vaghissimi pallii,

ricoprendo il suolo olezzante con drappi di seta del Sinai!

L’auretta li lambisce e reca la fragranza dell’ambra;

gli alberi son carichi della frutta più squisita;

ascolta gli augelli che a lor costume cianciano a gara dall’alba al tramonto!

Che qui Ruggiero intenda a grandi cose, egli re dei Cesari,

tra le dolcezze d’una vita che si prolunghi tra le brigate che son suo diletto.

Ma è forse l’Andalusia il luogo dove rifulge maggiormen­te fino a oggi l’arte del giardino arabo, negli imponenti resti delle sontuose regge dei Mori, sito non solo di piacevole ristoro ma anche di segrete cure amorose, come testimonia­no i frammenti di una poetessa ebrea, Qasmuna:

Guardando attraverso lo specchio vide la sua bellezza

giunta era l’età per sposarsi, ma non lo era Così disse improvvisa­ndo Vedo un giardino per cui è arrivato il tempo del raccolto, ma nessuno tendere la mano per coglierne il frutto

Oh! Qual rimpianto, sola rimane la persona di cui non dico il nome

O gazzella che pascoli sempre nel mio giardino ti somiglio nella selvatiche­zza e negli occhi neri, ma a sera divento parola solitaria senza amico e sempre ci appelliamo contro la sentenza del destino.

Nella natura dunque si specchiano le anime tormentate, in ogni tempo e luogo, ora trovandovi consolazio­ne, ora facendo vibrare all’unisono col loro canto qualunque cosa le circondi. Ibn Khafaja, della zona di Valencia, così si immerge nel paesaggio invitandoc­i a perderci insieme a lui quasi fondendoci con cielo e terra, richiamand­o ogni sorta di piaceri terreni, persino quelli proibiti:

Le nubi predissero pioggia copiosa e vino

fondi così il loro argento con oro zecchino

E sul suolo sabbioso, come vuol primavera, giaci

coi compagni canterini e gli uccelli loquaci Dividendo gli sguardi tra il bello di un lombo di colle e una cinta di valle E in grembo al prato una mano di zefiro ha elargito perle di rugiada e boccioli di monete Lì sussultava un albero per l’ospite trillante

forte sbattendo le fronde al vento fragrante Al soffio i suoi rami sovente scuoteva la brezza di un manto di gemme vestiva.

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