Corriere della Sera - La Lettura
«Le nubi predissero pioggia e vino» L’ordine della natura
Cosmogonie mediorientali, canti di poeti, ingegneri andalusi: una gara per edificare il luogo delle delizie
«Il Signore piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi pose l’uomo che aveva formato. Il Signore fece spuntare dal suolo ogni sorta d’alberi piacevoli a vedersi e buoni per nutrirsi, tra i quali l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse». Così la Genesi presenta il compimento della creazione, né c’è da stupirsene in quanto i nomadi abitatori dell’arido Medio Oriente guardavano ai luoghi provvisti d’acqua e di vegetazione come all’immagine terrena di qualcosa addirittura di soprannaturale. Non a caso lo conosciamo anche come «Paradiso terrestre». Il Corano mantiene e sviluppa tale simmetria: «S’assomiglia il Giardino promesso ai timorati di Dio a qualcosa sotto la quale scorrono i fiumi, e i suoi frutti saranno perenni, e la sua ombra. Questa sarà la Dimora Finale di quelli che temono Iddio». È il Paradiso (in arabo Janna) di cui il diminutivo ( junayna) significa appunto «giardino». All’interno delle stesse case, dunque, chi poteva permetterselo ha sempre cercato di avere del verde e almeno una fontana. Uno schema apparentemente semplice che però col tempo e intrecciandosi con le culture che via via venivano incorporate durante le conquiste si precisò, si arricchì e subì delle variazioni che ne hanno fatta una vera e propria forma artistica. Geometrie simmetriche, a somiglianza delle decorazioni murali e parietali, si riproponevano negli spazi dedicati a vari tipi di piante, divisi da canali d’acqua corrente, incastonati in più ampie strutture solcate da passaggi e luoghi di sosta. Un posto dunque generalmente chiuso, nel cortile interno delle abitazioni sul quale si affacciano porte e finestre, mentre le facciate esterne sono meno curate e dotate di accessi limitati. La tradizione dei giardini orientali non nasce certo con gli arabi, già nell’antica Persia si ricorreva addirittura a tappeti che ne riproducessero forme e colori in modo da poterne godere anche nelle stagioni meno clementi: nel suo palazzo di Ctesifonte, il sasanide Cosroe I ne avrebbe posseduto uno enorme: più di 60 metri per 20, ornato da fili di metalli pregiati e lucenti, da pietre preziose colorate che rappresentavano i fiori e cristalli al posto degli specchi d’acqua. A questa sensibilità primigenia e universale, l’avvento dell’Islam fornì un quadro di riferimento ideale fortemente marcato da elementi mistici, come appare evidente dai versi del celeberrimo Rumi, fondatore dei dervisci danzanti, quando paragona il suo canto alla voce triste del flauto: Da quando mi strapparono dal Canneto, ha fatto piangere uomini e donne il mio dolce suono! Un cuore voglio, un cuore dilaniato dal distacco dell’Amico, che possa spiegargli la passione del desiderio d’amore./ Ché chiunque lungi rimanga dall’origine sua, sempre ricerca il tempo in cui vi era unito!
Non di rado, dunque, attorno al giardino, sulle pareti e sugli archi che lo circondano, alle sue geometrie corrispondono quelle di motivi decorativi e di calligrafie che riprendono passi coranici, eulogie o nomi divini cui la forma delle lettere arabe in vari stili si presta mirabilmente. Poeti arabi di Sicilia si sono distinti, anche a cavallo con l’epoca normanna, nell’eternare coi loro versi l’effimera bellezza di simili giardini, come al-Butiri (da Butera):
Evviva la reggia trionfante che splende d’incantevole bellezza,
col suo castello egregiamente edificato, dalle forme eleganti, dalle eccelse logge;
con le sue belve e le copiose acque e le sorgenti paradisiache!
Ecco i giardini, cui la vegetazione riveste di vaghissimi pallii,
ricoprendo il suolo olezzante con drappi di seta del Sinai!
L’auretta li lambisce e reca la fragranza dell’ambra;
gli alberi son carichi della frutta più squisita;
ascolta gli augelli che a lor costume cianciano a gara dall’alba al tramonto!
Che qui Ruggiero intenda a grandi cose, egli re dei Cesari,
tra le dolcezze d’una vita che si prolunghi tra le brigate che son suo diletto.
Ma è forse l’Andalusia il luogo dove rifulge maggiormente fino a oggi l’arte del giardino arabo, negli imponenti resti delle sontuose regge dei Mori, sito non solo di piacevole ristoro ma anche di segrete cure amorose, come testimoniano i frammenti di una poetessa ebrea, Qasmuna:
Guardando attraverso lo specchio vide la sua bellezza
giunta era l’età per sposarsi, ma non lo era Così disse improvvisando Vedo un giardino per cui è arrivato il tempo del raccolto, ma nessuno tendere la mano per coglierne il frutto
Oh! Qual rimpianto, sola rimane la persona di cui non dico il nome
O gazzella che pascoli sempre nel mio giardino ti somiglio nella selvatichezza e negli occhi neri, ma a sera divento parola solitaria senza amico e sempre ci appelliamo contro la sentenza del destino.
Nella natura dunque si specchiano le anime tormentate, in ogni tempo e luogo, ora trovandovi consolazione, ora facendo vibrare all’unisono col loro canto qualunque cosa le circondi. Ibn Khafaja, della zona di Valencia, così si immerge nel paesaggio invitandoci a perderci insieme a lui quasi fondendoci con cielo e terra, richiamando ogni sorta di piaceri terreni, persino quelli proibiti:
Le nubi predissero pioggia copiosa e vino
fondi così il loro argento con oro zecchino
E sul suolo sabbioso, come vuol primavera, giaci
coi compagni canterini e gli uccelli loquaci Dividendo gli sguardi tra il bello di un lombo di colle e una cinta di valle E in grembo al prato una mano di zefiro ha elargito perle di rugiada e boccioli di monete Lì sussultava un albero per l’ospite trillante
forte sbattendo le fronde al vento fragrante Al soffio i suoi rami sovente scuoteva la brezza di un manto di gemme vestiva.