Corriere della Sera - La Lettura
Caro editore rifiutami
Occorre trovare la storia giusta e poi lasciarla maturare con calma: per pubblicare c’è tempo Il mestiere di scrivere Vedere il proprio libro stampato è solo l’inizio. Poi, se ha successo, un autore si ritrova sotto pressione per produrre un nuovo lavoro
Ese avesse avuto ragione James Joyce, quando ammetteva che potevano chiedergli tutto — pettegolezzi, confidenze, misfatti — ma non se stesse scrivendo? Gli era insopportabile per un’ostinata cura del silenzio, e dell’affanno. Proteggeva il momento della creazione e, a volte, l’abisso di non avere niente per le mani. In una vita di acrobazie letterarie Joyce mandò in libreria una manciata di opere capitali, pochissimi romanzi, respingendo come poté assalti di ammiratori e critici che lo pungolavano sui suoi prossimi orizzonti narrativi.
Donna Tartt che di romanzi ne concepisce uno ogni due lustri ammise che il suo isolamento dalla scena pubblica servì anche a questo, a difendere la gestazione, e a non dover spiegare il vuoto. E penso a Emmanuel Carrère, mentre affrontava la mia domanda inopportuna e joyciana, ripetuta dal 2009 per quattro anni di fila: Adesso a cosa stai lavorando, caro Emmanuel? Carrère, che è un tipo disponibile e gentiluomo, mi rispondeva con indizi su progetti in corso, finché dopo Il Regno si lasciò andare: Buon Dio, Marco, non hai nient’altro da chiedermi? Poi ammise che per la prima volta non aveva in cantiere due opere parallele, e che proprio Il Regno, di cui si occupava da sempre, era stato per un decennio il suo antidoto al nulla. Adesso era solo: lui e nessuna impresa letteraria. Finalmente era arrivata l’inconsistenza che gli avrebbe fatto cambiare direzione. Disse così: cambiare direzione. E aggiunse che gli sarebbe servito del fegato per non adattarsi alla prima ideuccia e al terrore dell’assenza. Perché esistono storie felici per l’autore, nel senso che gli trasmettono sentimento, e allora vale la pena. E ci sono storie di potenza, e qui ne vale sempre la pena. E poi si insinuano storie né da un fronte né dall’altro — la maggioranza — che è meglio lasciar perdere. Uno scrittore si vede anche da quando sa togliersi di mezzo, n’est-ce pas?
La prima cosa che feci, mentre scendevo le scale della sua abitazione, fu ricordarmi i miei ritmi di pubblicazione: in dieci anni avevo dato alle stampe cinque romanzi. Di cosa avevo avuto paura? È la domanda che mi ritorna da allora e che non mi abbandona ogni volta che vado in libreria e apro una biografia di un qualsiasi romanziere nostrano. La media è un libro ogni due anni. Di che cosa abbiamo paura? Hemingway ammise dopo Il vecchio e il
mare che per tutta la vita aveva lottato con l’istinto di dare alle stampe lavori abbastanza buoni, ma che la sua coscienza narrativa («l’idea deve traboccare»), il suo inaspettato avanzo di umiltà e il suo editor Max Perkins avevano fatto in modo di tenerli nel cassetto. Ecco dunque: la percezione del mestiere, se stessi, qualcuno che ci metta i bastoni tra le ruote. Prima di spararsi Hemingway aveva seminato anche questo lascito, come gestire una carriera e soprattutto come rispettare i lettori con storie scelte. Ma lui era Hemingway e parlava di rinuncia letteraria dopo aver fatto fortuna a 26 anni con Fiesta e con un lavoro da corrispondente che gli aveva permesso di rimanere nel recinto del suo talento. Aveva avuto i soldi da subito (o quasi) e un mestiere che gli garantisse libertà avventuriere. Non è roba di questi tempi.
Ma il dado hemingwayano è tratto: al di là dell’epoca, aveva mantenuto spesso il freno produttivo di sé — è davvero buono quello che sto scrivendo da permettermi di pubblicarlo? — e aveva avuto un editore con la guardia alta — è davvero buono quello che hai scritto da permettermi di pubblicartelo? Sono due condizioni che fanno la differenza anche ai giorni nostri. Se tenessimo per noi i libri di cui non siamo sicuri, andremmo incontro a lunghi periodi di non pubblicazione e ci scontreremmo con anticipi non incassati: sono due talloni d’Achille capricciosi. Mancare dalla libreria può scatenare emorragie narcisistiche più o meno copiose, e ce ne faremmo una ragione. Depennarsi dell’anticipo editoriale invece può essere una resa preoccupante, dipende dal successo di vendite dell’autore e dalla sua situazione, la certezza è che in più di un caso costringerebbe a nuovi assetti professionali e a una conseguente limitazione del tempo per scrivere. Al netto di questa igiene, i lettori troverebbero opere migliori? Forse sì, o forse no, di sicuro sarebbero meno. Ma qui la strada si biforca e diventa personale.
A un anno dall’uscita del mio ultimo romanzo (febbraio 2015), un autore italiano che vende centinaia di migliaia di copie mi avverte che è iniziato il conto alla rovescia per buttare fuori un altro libro, perché da quando ho pubblicato il tempo inizia a essere troppo e il lettore è già pronto a scordarsi di me. Chiedo, secondo lui, quanto mi restasse prima dell’oblio eterno. Non ha dubbi: il 2018 al massimo. E qui lo sento: Joyce che preme sullo sterno, lo spillo che penetra nel ventricolo. Affonda di nuovo in un festival a Montpellier a cui partecipo con una comitiva di autori italiani, due di loro in momenti separati insistono sullo stesso nodo: Affrettati, spicciati, datti una mossa. E io nel mio piccolo penso di nuovo al buon James, a come magari si accarezzava nervosamente l’occhio malandato nel momento dell’assalto, e penso a Ernest e a Emmanuel, alla truppa che ha il terrore del vuoto ma che non teme di starci dentro fino al collo. Per ultimo invoco Massimo Troisi, che intitolò il suo lungometraggio Scusate il ritardo in onore di chi lo aveva spronato durate il lento processo creativo. È una morsa, e a me le morse hanno sempre prodotto confidenze: non ho niente di veramente felice, dico. Lo ripeto appena qualcuno inizia a girare intorno all’argomento. So che non è una questione di quantità, avrei una dozzina di storie da raccontare, ma in tutta coscienza: nessuna è quella storia. Quella come? Quella che nessuno ha mai scritto? Quella che tenta di far urlare al capolavoro? Quella attualissima con la nostra epoca? Non è questo: è una faccenda che riguarda il superamento. Superare ciò che credo di non saper fare.
Certo, potrei provare a raccontare con un altro sguardo ciò che ho raccontato, potrei esplorare territori sfiorati o codici perlustrati, e mi sentirei anche centrato. Ma annuso che lo farei per inconsistenza. Sono narrazioni che vengono dalla testa, soprattutto dalla testa, con qualche lembo di viscere. Un’idea pensata troppo è già consumata, le parole di Dickens rimarcano il sospetto: l’eccessiva premeditazione di un libro lo spegne, è necessario un incanto che l’attesa genera. Chiamo il mio editore e lo metto alla prova dicendo di non considerarmi fino al 2025, magari 2030, lui sembra attento alle mie parole e non cade nella trappola, mormora solo: non ti fissare. Passano i giorni e i mesi e io avverto che senza scrivere per pubblicare l’esistenza scorre liscia, voluttuosa, addirittura serena: vado in piscina di prima mattina, poi a lavoro fino alle cinque del pomeriggio per la rivista di psicologia, poi a dedicarmi a mia moglie e a ogni forma di divertimento terreno. È straordinario e claudicante: sento che sono felice e che allo stesso tempo zoppico con quella voce interiore che mi ripete: È l’ora, cosa aspetti, devi metterti sotto per un libro. Mi ha quasi convinto e inizio a pasticciare con appunti e schemi, poi una sera di giugno, davanti a un gelato, un amico riminese e lettore accanito sentenzia che è tutto lì il problema, non cedere all’imperativo che l’autore si crea e che gli altri rinforzano inconsciamente: ci sei solo se pubblichi. Resistere a questo inno, come Ulisse con le sirene, permette l’evoluzione narrativa. È adesso che penso a Carrère quando mormora: cambiare direzione. La non pubblicazione lavora sulla scrittura, la rinuncia lavora sulla scrittura, l’attesa diventa scrittura. Sottrarsi, per scelta o nostro malgrado, rilancia il codice letterario.
Annie Ernaux narra di come i suoi tempi di madre con due bambini piccoli fossero sommersi dal rimpianto di non poter scrivere, dalla maledizione verso se stessa, da una rabbia che l’amore filiale non attutiva minimamente e che solo più tardi, finalmente libera dalle incombenze famigliari e lavorative, si era risolto con sgomento: aveva capito di quanto le difficoltà passate erano state la sua scrittura futura. Il brusio di allora l’aveva aiutata nella quiete di adesso. Il lavoro anche. Aver convissuto con la mancanza l’aveva portata a servirsi della mancanza, negandosi storie facili per riconoscere storie naturali. Ecco la parola: naturale. Quanto tempo aveva impiegato la Ernaux per Il posto? Un decennio. E per Gli
anni? Un ventennio. Quanto tempo è servito a Carrère per realizzare L’avversario? Sette anni. Sono due opere che assorbono il mondo di chi le ha tracciate grazie al metabolismo accorto, mai forzato, e che per questa assimilazione stimolano rivoluzioni in chi le ha narrate e in chi le legge. Poi ci sono le eccezioni, Simenon, Carol Oa- tes, che fanno letteratura con un ritmo da metronomo. O Philip Roth l’instancabile, che per cinquant’anni non ha mai tirato il fiato, sostenendo l’importanza anche delle opere minori — in qualche modo preparatorie delle maggiori — purché sentite davvero. O i giallisti che si appoggiano con maestria ai loro meccanismi o ai loro personaggi seriali, quasi non abbandonassero mai un’intimità. Bisogna esserci nati, lo stesso Simenon ammise: «Sono venuto così, altrimenti lungi da me».
Per chi non è venuto così, rimangono i tre assiomi hemingwayani più uno: assicurarsi che l’idea trabocchi, sapersi boicottare, avere un editore che sappia inchiodare la mediocrità. Essere naturale. Caro me stesso, sii franco con ciò che scriverò. Caro editore, rifiutami. Dal mio canto io prometto di non andare in un’altra casa editrice. Ma tu rifiuta i miei manoscritti sotto le aspettative e rispediscimi quelli acerbi, fammi capire se l’inchiostro che ti ho sottoposto rispetta una felicità o è solo spavento dell’assenza, fallo a costo di fare un buco nel tuo programma editoriale, a costo di perdere il mio zoccolo duro di lettori, a costo di allungare l’ombra del mio silenzio e condannarmi all’avvitamento. Come Cormac McCarthy che si è barricato nella sua casa di El Paso quando avvertì che avrebbe potuto perdere l’arte della gestazione, cedendo alla fretta della pubblicazione. È nato così il suo sparare in aria ogni volta che un giornalista si avvicinava troppo alla staccionata di casa. È difendersi o forse è solo il rituale dell’attesa.
Barricarsi, caricare il fucile, aspettare l’alba. Perché il romanzo della notte comincia di giorno, nel frattempo bisogna trovare le parole: lo disse Sherwood Anderson, uno dei padri ispiratori di McCarthy e di Hemingway. E proprio Ernest le trovò per se stesso, quando aspettava la scintilla di Fiesta. Era a Parigi e conviveva con la sua prima moglie in Place de la Contrescarpe, aveva pochi soldi ma non affrettò mai la sua sostanza narrativa. Fu tentato, non cedette, si impaurì. Poi si mise in pace, ripetendosi la frase di chi aspetta, «Non preoccuparti. Hai sempre scritto e scriverai ancora. Non devi fare altro che scrivere una frase sincera. Scrivi la frase più sincera che sai». Oppure, per un po’, togliti di mezzo.