Corriere della Sera - La Lettura
Flaubert come la Bovary ma se ne vergognava tanto
Classici Madame Bovary può apparire al tempo stesso schiava di pregiudizi antichi o femminista ante litteram L’ambiguità è in Flaubert: ora tenero ora beffardo, ci mostra che l’amore romantico è straziante quanto ridicolo
Èla fine dell’estate del 1849 e Flaubert si prepara ad accogliere nella grande casa di Croisset due cari amici: Maxime Du Camp e Luis Bouilhet. La cospicua eredità del padre gli ha permesso di ritirarsi anzitempo dalla vita attiva e di consacrarsi alla professione di scrittore. Ha convocato i suoi amici per avere un giudizio schietto sul libro a cui ha lavorato alacremente negli ultimi anni: La tentazione di Sant’Antonio. Quello che i due poveretti non sanno, infatti, è che Gustave li sta per sottoporre al supplizio che qualsiasi amico di scrittore conosce: sorbirsi dalla prima all’ultima riga un librone declamato dalla voce stentorea dell’autore. Il tour de force dura quattro giorni e una notte; si articola in otto snervanti sedute, scandite dalla celebre ospitalità normanna: carni rosse, Calvados, torte di mele. I due amici hanno mantenuto il riserbo fino in fondo, per ritirarsi all’alba del quinto giorno nella stanzetta attigua allo studio, come una giuria. Eccoli là a confabulare indecisi: devono essere onesti? O andarci piano? È vero, li ha molestati con quel verbosissimo sproloquio. Però li ha anche coccolati con un vitto prelibato. Poi è un amico, gli vogliono bene. È Bouilhet, il più autorevole dei due, a emettere la sentenza, invitando Flaubert a dare il suo libro alle fiamme.
Il cilicio della scrittura
Si tratta di uno degli aneddoti più famosi della vita di Flaubert, del resto così avara di avvenimenti. Stando al non sem- pre attendibile Du Camp, fu Bouilhet a suggerire a Flaubert di sbarazzarsi di certi deliri lirici, per dedicarsi a una storia realista, tipo lo scandalo dei coniugi Delamare, dal quale Gustave ricaverà le linee essenziali della biografia di Emma Bovary e del suo sfortunato consorte.
Quando, dopo il viaggio in Oriente, Flaubert si rimette al lavoro, si accorge che la scrittura è ormai un tormento. «Amo il mio lavoro di un amore frenetico e pervertito», scrive a Luise Colet, «come l’asceta il cilicio che gli tormenta il ventre». In cosa consiste il cilicio? Nella scelta programmatica di argomenti gretti e prosaici. Nel divieto auto-inflitto di giudicare i suoi personaggi, lasciando che siano i fatti a irriderli con tutto il sarcasmo di cui sono capaci. Nella fuga dall’esuberanza, dalla magniloquenza e dal sentimentalismo dei grandi scrittori del suo tempo (Balzac, Hugo, Lamartine su tutti).
Il lavorio incessante sulle frasi finisce per conferire alle pagine il nitore marmoreo che conosciamo. La prosa, ancorché incantevole, risulta impostata, se non addirittura legnosa. La musicalità talvolta prende il sopravvento su disegno, personaggi e struttura. È ironico come lo scrittore che passa per il più illustre rappresentante del movimento realista sia proprio colui che, insieme a Baudelaire, ha posto le basi lussureggianti per il decadentismo. Lo stile è la risposta all’odio per la vita, al disprezzo per i suoi simili, al tedio per se stesso. Il veleno del nichilismo emerge da ogni punto e virgola, ogni el- lisse, ogni similitudine. Almeno in questo Flaubert è l’antitesi di Tolstoj.
Flaubert o Tolstoj
«Non c’è modo di dimostrare che chi pone Madame Bovary al di sopra di Anna Karenina è in errore, e non ha il minimo orecchio per le tonalità essenziali». Parola di George Steiner, ahimè difficile da confutare. Tolstoj gioca in un altro campionato (lo stesso in cui si destreggiano fuoriclasse del calibro di Dante e Shakespeare). La superiorità di Tolstoj si esprime in una visione che trascende l’arte fin quasi a negarla. Per Flaubert non c’è niente oltre l’arte. Che sia questo a rendere Tolstoj un artista migliore, è beffardo ma inevitabile.
Il più classico dei raffronti
Un paio di settimane fa abbiamo tentato di illustrare come Tolstoj lavori per rendere immediata l’identificazione del lettore con la Karenina. Anna è un’eroina nell’accezione romantica del termine: il suo conflitto con la società è tragico. Il suicidio è un effetto collaterale dell’odio per l’ipocrisia, dietro al quale scorgiamo l’ardore puritano di Tolstoj.
Non altrettanto si può dire di Emma Bovary e del suo suicidio. Troppo presa da sé, dai sogni e dai piaceri, lei se ne infischia della società. Il che complica l’identificazione del lettore. Per Tolstoj l’invenzione di Anna fu un’epifania; per Flaubert Emma sancì la rinuncia definitiva agli ideali romantici della sua giovinezza; Anna è figlia dell’immenso successo di Guerra e pace, Emma del fallimento della prima versione de La tentazione di Sant’Antonio; Tolstoj scriveva in preda a una febbre tumultuosa, Flaubert con fatica e ostinazione solo di rado illuminate dal fuoco della voluttà. A farne le spese è la povera Bovary. Il lettore la guarda con la stessa diffidenza con cui la guardava il suo creatore. Eppure (un punto a favore di Flaubert) sentiamo Emma così vicina, così implicata con le nostre miserie: ci suscita sentimenti di ribrezzo, tenerezza e comprensione. Del resto, tutti vorremo vivere nel mondo di Anna, ma chi resisterebbe un solo giorno nei panni di Emma?
Un paio di giudizi autorevoli
Sebbene Nabokov ammetta che Emma sia dotata di una qualche intelligenza e sensibilità, e persino di un certo charme rupestre, la ritiene una provincialotta superficiale: «Le fantasie esotiche non le impediscono di essere in fondo una piccolo borghese, aggrappata a idee convenzionali del convenzionale, e l’adulterio è un modo estremamente convenzionale di sollevarsi dal convenzionale». Vargas Llosa, invece, coltiva per la Bovary un’autentica venerazione: «I desideri per cui Emma pecca e muore sono quelli che la religione e la morale occidentale hanno combattuto più selvaggiamente nel corso della storia. Emma vuole godere, non si rassegna a reprimere in sé quella profonda esigenza sensuale che Charles non può soddisfarle perché non sa neppure che esiste e, inoltre, vuole circondare la propria vita di elementi superflui e piacevoli, l’eleganza, la raffinatezza, materializzare in oggetti l’appetito di bellezza che hanno fatto nascere in lei la sua immaginazione, la sua sensibilità e le sue letture».
Chi è Emma Bovary?
Dunque chi è Emma? La casalinga disperata di Nabokov o la suffragetta, la spregiudicata edonista, la dandy libertaria di Vargas Llosa? Chi può dirlo! Una volta, durante un seminario, sollecitai una discussione tra due studentesse molto brave, i cui giudizi sulla Bovary differivano non meno di quelli di Nabokov e Vargas Llosa. Una diceva che Emma è conformista, schiava del tipico atteggiamento sessista del suo tempo, un’ipocrita che se potesse rinascerebbe maschio. L’altra sosteneva l’esatto contrario: la signora Bovary è una femminista ante litteram, orgogliosamente dedita al proprio piacere sessuale e spavaldamente disinteressata alla maternità. Insomma maschilista o femminista? Ipocrita o eversiva? Chi delle
agguerrite studentesse aveva ragione? Forse entrambe. Così come avevano ragione sia Nabokov che Vargas Llosa. Emma è un essere complesso, ambiguo e contraddittorio. La sua volubilità — suggerita dagli splendidi occhi che cambiano colore quasi a ogni scena (neri, azzurri o castani?) — è ciò che la rende così speciale e indimenticabile. Anche Anna Karenina — tanto per essere chiari — ha le sue ambivalenze, anche lei è vittima di ripensamenti e rancori che non ci aspetteremmo. Ma il suo destino ha una tragica linearità. Tolstoj la prende dannatamente sul serio. Altrettanto fa il lettore.
Le ambiguità di Flaubert
E Flaubert prende sul serio la sua eroina? Difficile stabilirlo. A tratti sembrereb- be di sì. Quando la vediamo per la prima volta attraverso gli occhi del futuro marito, avvertiamo tutta la tenerezza dell’autore. Ah, l’abito azzurro di merino, gli occhialini di tartaruga infilati nel corsetto, il nitore sfavillante delle unghie... Ma quando passa a raccontarci l’adolescenza di Emma, la precoce devozione religiosa e gli amori letterari, sentiamo qualcosa incrinarsi. Flaubert sfotte Emma in un modo talmente impertinente che al lettore più smaliziato viene voglia di sghignazzare con lui. Gli sbalzi di umore nei confronti della sua eroina ci perseguitano per tutto il libro. Tanto è serio nel darci conto delle scorribande sessuali di Emma, tanto è beffardo quando passa in rassegna le svenevoli fantasie e le grette macchinazioni, per non dire della morte, che appa- re grottesca e oscena (tanto più se la paragoniamo all’eroica fine della Karenina).
Madame Bovary c’est moi?
Tali ambivalenze hanno contribuito alla diffusione di uno dei più grandi luoghi comuni della storia letteraria: « Madame
Bovary c’est moi ». Così si sarebbe espresso più di una volta Flaubert stando alla testimonianza di Amélie Bosquet (nota contaballe). La veridicità della confessione è stata più volte confutata, anche per questo non abbiamo intenzione di accodarci alla schiera dei censori. Il dato interessante è che la frase goda ancora di un simile prestigio. Mi chiedo se ciò non dipenda dallo strano rapporto che Flaubert intrattiene con la sua creatura; è come se le donasse la parte di sé per cui prova ver- gogna: sentimentalismi, esotismi, sensualità. Conosce le pieghe segrete dell’animo di Emma come un fratello intelligente conosce la gemella scema. Quando se ne dimentica, arriva quasi a identificarsi con lei e con il suo destino; ma quando è in sé appare lucido, beffardo e spietato.
Di chi sono le similitudini?
Sebbene Madame Bovary sia un libro iper-controllato, abbonda di similitudini, non tutte riuscite stando ai suoi esegeti più severi. Proust, per esempio, non solo rimprovera a Flaubert di non aver azzeccato una sola metafora, ma deplora le sue famose similitudini, sostenendo che siano talmente corrive da non elevarsi mai al di sopra dei personaggi. Qualcosa di analogo dice Nabokov in una delle sue lezioni. Sta commentando il passo in cui Flaubert mostra lo strazio di Emma appena abbandonata da Léon: «Il dolore scavava profondamente nella sua anima con dolci urli come fa il vento invernale nei castelli abbandonati». Ed ecco la divertita considerazione del Professor Nabokov: «In questi termini Emma avrebbe descritto il proprio dolore, se avesse avuto genio artistico». Come a dire, la similitudine sdolcinata è di Emma, il genio nel renderla è tutto di Gustave. Ciò che per Proust è un difetto, per Nabokov è una qualità. E temo che stavolta sia Proust a sbagliarsi. Il gioco di Flaubert è tutto qui: non innalzarsi mai al di sopra dei personaggi. Sposarne il punto di vista. Ecco il più straordinario contributo tecnico apportato da Flaubert alla narrativa. A fronte di uno stile elevato, le similitudini sono ordinarie come la vita. Ecco perché alcuni lettori si identificano con la Bovary, altri (più scaltri?) la deridono e la disprezzano.
Il discorso indiretto libero
Quando Balzac vuole entrare nella mente di Rastignac scrive brutalmente: «Rastignac pensava»; poi mette i due punti, apre le virgolette e riporta per filo e per segno le sue elucubrazioni. Flaubert invece utilizza il discorso indiretto libero. Evita i cosiddetti verbi dichiarativi («pensava che», «riteneva che») e riporta letteralmente gli stati d’animo dei suoi eroi. In tal modo crea una promiscuità tra autore e personaggio, producendo nel lettore un piacere sottile che genera le ambiguità di cui abbiamo parlato.
Pensate a quando Emma, reduce dal ballo della Vaubyessard che le ha permesso di assaggiare — per la prima e ultima volta nella sua vita — i lussi della buona società, inizia a fantasticare su Parigi («più vasta dell’oceano»), i boulevards, i saloni tappezzati di specchi e le salette riservate dei ristoranti. È qui che lo stile sublime di Flaubert si fonde con le misere frustrazioni di Emma. «L’amore non esigeva forse, come le piante indiane, terreni adatti a una particolare temperatura? Sospiri al chiaro di luna, lunghi abbracci, lacrime che cadono su mani abbandonate, ogni febbre della carne, ogni languore della tenerezza erano indissolubili dai veroni dei grandi castelli, ricettacoli di piaceri, da un salottino con cortine di seta, un letto rialzato da una pedana, scintillio di pietre preziose, galloni di livree».
Così Flaubert, attraverso la Bovary, mostra che l’amore romantico è straziante e commovente proprio perché ridicolo, e che i desideri sono sempre più sfavillanti della realtà.