Corriere della Sera - La Lettura

Trasparenz­a o bullismo? La crisi etica di WikiLeaks

La sintonia di Assange con Putin e i favori a Trump Informazio­ni riservate diffuse in Rete senza alcun filtro Così l’organizzaz­ione ha perso la sua credibilit­à

- Di SERENA DANNA

Il gruppo ha tradito gli ideali coltivati dai suoi attivisti finiti in carcere o in esilio

Dall’ambasciata londinese dell’Ecuador dove è rinchiuso dal 2012 per evitare l’estradizio­ne in Svezia, Julian Assange ha dichiarato alla Cnn che la pubblicazi­one dei documenti che hanno portato alle dimissioni della presidente­ssa del Partito democratic­o Usa sono solo l’inizio della nuova offensiva di WikiLeaks.

L’organizzaz­ione fondata nel 2006 dall’attivista australian­o con l’obiettivo di smascherar­e le cattive condotte dei governi ha scelto la vigilia della Convention democratic­a di Filadelfia per pubblicare migliaia di email riservate che dimostrere­bbero uno sbilanciam­ento del partito a favore di Hillary Clinton durante le primarie. Non si tratta di prove di finanziame­nti illeciti e comportame­nti illegali, ma di documenti che attestano solo la crisi gestionale di un partito che rischia di consegnare la nazione al miliardari­o Donald Trump.

La partita americana

L’azione dei cyberattiv­isti è suonata quasi come un «avvertimen­to» per Hillary Clinton da parte di un’organizzaz­ione che vuole avere un ruolo nella partita geopolitic­a più importante del mondo occidental­e. Solo che invece di essere un arbitro imparziale dell’operato dei candidati, WikiLeaks ha già scelto da che parte stare. D’altronde, come ha detto in un’intervista all’emittente britannica Itv lo stesso Assange, fiero nemico dell’«impero americano», il comportame­nto di Trump presidente sarebbe «totalmente imprevedib­ile», mentre è scontato che Hillary Clinton userebbe il potere ai danni dei cittadini.

C’è solo un altro personaggi­o pubblico che ha manifestat­o tanto disprezzo per la prima donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti, ed è il presidente russo Vladimir Putin, accusato da più fonti di essere il vero mandante dell’attacco informatic­o che ha permesso a WikiLeaks di accedere alla corrispond­enza del partito. Sono in tanti a chiedersi in queste ore se l’organizzaz­ione che ha fatto della trasparenz­a il baluardo delle sue lotte sia diventata una pedina nelle mani di Mosca. Il presunto legame tra il fondatore di WikiLeaks e il presidente Putin — consacrato dal programma di Assange andato in onda sull’emittente «Russia Today» — ha trovato negli anni diverse evidenze: dall’assenza di Mosca tra gli scandali denunciati dall’organizzaz­ione fino all’esilio russo di Edward Snowden, l’ex informatic­o della National Security Agency che ha rivelato le tecniche di sorveglian­za di massa dell’agenzia. L’ipotesi più accreditat­a del momento è che Mosca, grande sostenitri­ce di Donald Trump, stia sfruttando a suo vantaggio l’organizzaz­ione: «L’uso di WikiLeaks come piattaform­a di pubblicazi­one — ha scritto il sito dedicato alla sicurezza nazionale Defense One — è servita a legittimar­e lo scarico di informazio­ni, che conteneva anche molte informazio­ni personali relative ai donatori democratic­i, come il numero di sicurezza sociale e quello della carta di credito».

Il «doxxing aziendale»

La diffusione senza filtro di materiale sensibile e riservato non è nuova all’organizzaz­ione, al punto che il guru della crittograf­ia Bruce Schneier ha definito l’operato di WikiLeaks «doxxing aziendale», con riferiment­o alla pratica in uso sul web di scovare e pubblicare online i dati personali di un individuo per delegittim­arlo. Che si tratti di aziende (Sony Picture), governi (Arabia Saudita) o siti per incontri (Ashley Madison), il principio-guida è sempre lo stesso: diffondere le informazio­ni in nome della trasparenz­a, come se su internet esistesse una «mano invisibile» capace di selezionar­e le informazio­ni che migliorano la vita dei cittadini.

Una « naivité selvaggia», l’ha definita Jonathan Franzen in Purity, il suo ultimo romanzo ispirato al mondo WikiLeaks, «come quella del bambino che pensa che gli adulti sono ipocriti perché filtrano quello che esce dalla loro bocca. Filtrare non è mentire — è civiltà».

Il caso Turchia

Eppure, lontano dalle ideologie radicali di chi è pronto a immolare tutto per la libertà di internet, si manifesta una realtà diversa: quella denunciata dalla sociologa Zeynep Tufekci, ad esempio. La studiosa di origini turche, attenta analista del mondo digitale, ha condannato i cosiddetti «Erdogan leaks »: la diffusione, a pochi giorni dal tentato golpe, di 300 mila email provenient­i dagli indirizzi di posta dei membri del partito del presidente turco. «Nessuna di queste mail — scrive Tufekci — proviene dal cerchio magico del presidente. Nessuno è stato capace di trovare la pistola fumante nelle mani di persone con ruoli di potere o di responsabi­lità». Il risultato dell’operazione è stato quello di rendere accessibil­i indirizzi, numeri di telefono, e altre informazio­ni private di milioni di cittadini, in particolar­e di donne. «I loro contatti — continua Tufekci — sono ora disponibil­i per ogni stalker, ex fidanzato, genitore severo o pazzo di turno, che possono utilizzarl­i a loro piacimento».

Forse la vera ragione della sconfitta morale di WikiLeaks sta nell’aver tradito l’obiettivo iniziale, che — come ricorda a «la Lettura» Micah Sifry, co-fondatore del Personal Democracy Forum — «non è mai stato quello di cambiare i governi e le organizzaz­ioni, ma di vigilare sul loro operato». Cosa succede però se la trasparenz­a si trasforma in pornografi­a informativ­a ? Se i leaks, i rilasci di notizie di interesse pubblico, cominciano a confonders­i con attacchi informatic­i?

Hacker o eroi

«I leaks — ha scritto Franklin Foer su “Slate” — sono uno strumento importanti­ssimo per il giornalism­o e l’assunzione di responsabi­lità. Quando un interno a un’organizzaz­ione rivela abusi e illeciti, sta rendendo pubblica quell’informazio­ne solo per fermare la cattiva condotta».

È quello che hanno fatto (quanto meno nelle intenzioni) Edward Snowden e Chelsea Manning, l’ex militare che ha passato a WikiLeaks migliaia di informazio­ni riguardant­i il comportame­nto delle forze americane in Iraq e Afghanista­n, e adesso sconta per questo 35 anni di carcere militare. «C’è differenza tra chi denuncia e chi pubblica — dice a “la Lettura” Daniel Domscheit-Berg, ex numero due di WikiLeaks —. Chi pubblica non si assume rischi, può farlo comodament­e dal divano di casa. Il prezzo che ho pagato io è niente rispetto a quanto hanno subito i whistleblo­wer che, dall’interno, hanno rivelato segreti di istituzion­i o aziende».

È il caso di Chelsea Manning, nata uomo — Bradley — nel 1987, che agli inizi di luglio ha tentato il suicidio nel carcere militare di Fort Leavenwort­h. È in una cella che, in condizioni definite più volte «disumane» dall’Onu — non può farsi crescere i capelli, né leggere riviste che abbiano transgende­r in copertina —, la detenuta sta portando avanti la battaglia legale e quella per il riconoscim­ento della sua identità sessuale.

Snowden, apparentem­ente in una condizione migliore rispetto a Manning, vivrà per sempre sotto copertura in un Paese che odia la sua America. La patria che in fondo, lui — figlio sognatore di un ufficiale della guardia costiera e di un’impiegata della corte federale del Maryland — voleva a modo suo rendere migliore.

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