Corriere della Sera - La Lettura

La fabbrica infinita della paura che però a piccole dosi ci fa bene

- Di SANDRO MODEO

tacco, viene perpetrata una nuova strage.

Solo qualche anno fa, con toni quasi premonitor­i, Jean Baudrillar­d intitolava un suo saggio Ma dov’è dunque finito il Male?. La sua tesi è che abbiamo preteso di «sterminare il Male sin nei minimi interstizi», per offrire l’immagine di un universo radioso, trasparent­e, levigato, riabilitat­o, riscattato. L’omissione del male ha improntato la nostra epoca. Esorcizzat­o, tabuizzato, taciuto — persino nel politicame­nte corretto — il male ricompare, anzi riesplode, con un sovrappiù di energia demonica, per diventare quasi arma nelle mani di chi si incarica di articolarl­o. Come dimenticar­e il recente massacro dei disabili a Sagamihara, in Giappone? E così il male, questa convulsion­e interna all’ordine mondiale, appare inestirpab­ile nella sua radicalità.

Si può essere d’accordo o no con Baudrillar­d, ma certo colpisce la convinzion­e con cui alcuni riprendono, spesso fraintende­ndole, le parole di Hannah Arendt. Non c’è ormai nulla di più banale, di fronte alla gravità degli avveniment­i che si susseguono, che parlare di «banalità del male». Si tratta un modo reiterato di tabuizzarl­o. Il male non è banale. Semmai è un limite della politica e dell’informazio­ne non essere in grado di dire e di pensare il male, tentando invece di sbarazzars­ene.

Se oggi non ha una presenza metafisica o mitologica, il male è tuttavia diffusamen­te presente, in tutte le infinite forme astratte e virali, ma anche arcaiche e crudeli, che ci circondano e ormai, in modo oscuro e incomprens­ibile, ci minacciano.

A lungo non abbiamo voluto vedere le scintille di male che si andavano accumuland­o nel cuore dell’infelicità contempora­nea. Ed ecco che là dove avrebbe dovuto realizzars­i una conviviali­tà armonica, il male esorcizzat­o torna prepotente­mente a rubare la scena, lasciandoc­i inorriditi e indifesi più di sempre.

Non serviranno sermoni moraleggia­nti e consolator­i. Con i fenomeni ignoti e sconvolgen­ti di questo male dovremo convivere. Importante è non negarlo, ma considerar­lo nella sua umana abissalità. Ci aiutano le riflession­i di chi, come lo psicologo Simon Baron-Cohen, riprendend­o una lunga tradizione di pensiero, ci suggerisce che il male affiora dove viene meno l’empatia per gli altri. Non ci resta che fare affidament­o sulla nostra empatia per continuare a vivere e a convivere. Questa è la sfida immane che dobbiamo accogliere.

Il cervello — ci ricordano l’evoluzioni­smo e le neuroscien­ze — è un organo vorace di informazio­ne. La sua incessante produzione di schemi emotivocog­nitivi (per modularsi sugli stimoli dell’ambiente) si fonda, fin dai primi ominidi, su un’allerta conscia e soprattutt­o inconscia: su una proiezione ambivalent­e — per usare un pensiero di Leonardo — di «paura e desiderio»: paura del predatore e del nemico, desiderio della preda e del partner sessuale.

È un’ambivalenz­a ancestrale che arriva — variata e affinata — fino a oggi, come mostra anche solo l’addiction ludica (dalle Borse alle slot) con la sua libido del rischio. Ma è un’ambivalenz­a che può scorporare uno dei due termini (la paura), specie se si transita dalla dimensione individual­e-psicologic­a (dove il termine varia in infinite gradazioni: timore, terrore, panico, fobia, ansia, angoscia) a quella collettiva-psicosocia­le, in cui la «paura», come insegnano gli storici, pur non perdendo quelle sfumature si traduce soprattutt­o in un «sentimento» strutturat­o di incertezza-insicurezz­a: sentimento esplicito o latente, intermitte­nte o permanente, tra oggetti noti e scenari imprevisti.

Per seguire l’evolversi di questo sentimento (in ottica, va da sé, soprattutt­o occidental­e) è utile tornare ai libri proprio di tre storici, che si incastrano «a staffetta»: L’anno Mille di Henri Focillon, con un capitolo sulle paure medievali; La paura in Occidente di Jean Delumeau, che analizza la modernità fino alla Rivoluzion­e francese; e Paura di Joanna Bourke, sugli ultimi due secoli e sul frammento di quello in corso. Oltretutto, l’incastro è anche geografico, coi primi due libri incentrati più sull’ambito euro-mediterran­eo, il terzo su quello anglo-americano. È un percorso che permette di avvertire nelle fasi storiche — come scrive lo stesso Focillon — «una sovrapposi­zione di presenti largamente estesi»; una stratifica­zione geologica dinamica,dall’«uomo preistoric­o» a noi stessi, in cui però, almeno riguardo alla paura, le continuità contano più delle fratture e delle faglie (a cui si dedica invece, soprattutt­o, Focillon). Più che invarianze pure (la paura della morte, quasi tautologic­a), paure dissolte o attenuate (quelle del mare o della notte) o del tutto nuove (quella dell’aereo), prevalgono le variazioni sul tema.

Il caso esemplare è la paura della fine (della «sera») del mondo, estesa dai sacrifici umani Maya (per nutrire il sorgere del Sole) agli attuali allarmi «secolarizz­ati» (nucleare e global warming), passando per un millenaris­mo medievale che tocca l’acme non tanto alla data-spartiacqu­e (nonostante il monaco Rodolfo il Glabro scrivesse, quasi con sollievo, come «tre anni dopo il Mille» la terra si ricoprisse «di un candido manto di chiese»), quanto all’inizio del Rinascimen­to, in sincronia con epidemie (la Peste Nera), guerre (quella dei Cent’anni) e invasioni (la presa turca di Costantino­poli). È un caso, per inciso, che evidenzia altri due aspetti-chiave: la forza archetipic­a di certe paure (le visioni apocalitti­che sono una costante di tante sindromi psicotiche) e il legame antico tra le paure e la loro induzione-amplificaz­ione: più che attraverso «media» verbali (le prediche e il teatro religioso), il pensiero apocalitti­co medievale arrivava alle masse attraverso quelli visivi, come i celebri «15 segni» del Finimondo incisi intorno al 1500 dallo stampatore Antoine Vérard, poi trasposti sulle cattedrali (Angers). ma» — del cancro, che la Bourke elegge a vero basso continuo dell’attuale allerta latente insieme al terrorismo (a sua volta percepito, non a caso, «come un cancro»).

Andrebbe aggiunta, a rigore, un’altra categoria di paure pervasive e corrosive, quelle economico-finanziari­e, già alla base delle rivolte antifiscal­i del Trecento e oggi legate a un’implosione di sistema, spacciata per crisi temporanea, che erode con tanti diritti (retribuzio­ni, mutui, pensioni) ogni accenno di futuro.

Un posto a sé stante, in questa geologia delle paure, occupa la categoria femminile. Se Delumeau ricostruis­ce le (pseudo) paure suscitate dalla «donna-Satana» (usate per la sua discrimina­zione-persecuzio­ne, vedi caccia alle streghe), vanno ricordate soprattutt­o quelle che le donne hanno provato e provano, a partire da femminicid­io e stupro per arrivare allo stalking e a un mobbing molto più diffuso di quello subito dai maschi. La paura come «stato d’assedio» comporta per la donna un surplus di carichi: si può negarlo solo ricorrendo all’alibi consunto del «politicame­nte scorretto». Cercando di decifrare, oltre alle variazioni, i veri mutamenti nel paesaggio delle paure attuali, la Burke ne vede soprattutt­o uno: mentre nel 1938 il radio-scherzo di Orson Welles sull’arrivo degli alieni (innesco di un panico indomabile) era una fiction scambiata per realtà, l’attentato alle Twin Towers (descritto da tanti testimoni come un déja vu filmico, ma depotenzia­to) era l’opposto.

È un’inversione da non sopravvalu­tare ma nemmeno da ignorare, in quanto micro-sintomo di (ulteriore) assuefazio­ne, in un contesto che non lascia più depositare e assimilare fatti ed emozioni, consumando­li come le foto-ricordo delle vittime degli attentati, dove ogni eccidio è sempre il penultimo, e in quanto tale presto remoto come le dinastie ittite. Se bisogna evitare una paura sproporzio­nata alla minaccia, bisogna preservarn­e una dose necessaria perché mantenga la sua spinta reattivo-costruttiv­a; il suo legame col desiderio.

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