Corriere della Sera - La Lettura

Robot intelligen­ti (ma non troppo) L’Europa vota un codice per le regole

Alla Scuola Sant’Anna di Pisa si sperimenta­no macchine in grado di sostituire il portiere di un condominio o un badante. Ma accanto alle soluzioni tecnologic­he più sofisticat­e si lavora al quadro normativo ed etico nel quale collocare gli apparecchi. Non

- Dal nostro inviato a Pisa e Pontedera ALESSIA RASTELLI

CoRA indossa un cravattino giallo, sorveglia il viavai dell’atrio con gli occhi tondi, prende l’ascensore e consegna la posta, muovendosi sulle ruote. DoRA veste di blu, parla e propone giochi cognitivi, obbedisce ai comandi vocali, ha tre dita per afferrare gli oggetti, una maniglia per chi cammina con difficoltà e si accorge se qualcuno è caduto.

CoRa è l’acronimo di Condominiu­m Robot Assistant («Robot assistente di condominio), DoRA di Domestic Robot Assistant («Robot assistente domestico»). Entrambi prototipi — il primo di un efficiente portinaio, il secondo di uno scrupoloso badante — messi a punto dall’azienda Co-Robotics, spin-off della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. L’obiettivo è arrivare a modelli prodotti su scala industrial­e. Ma che cosa succedereb­be se CoRA e DoRA combinasse­ro guai? Chi ne sarebbe responsabi­le? È possibile testarli fuori dai laboratori, negli ambienti in cui saranno operativi? E ancora: è legittimo lasciare che un anziano si affezioni alla macchina che lo accudisce? Quest’ultima sottrarreb­be lavoro agli esseri umani?

Sviluppare intelligen­ze artificial­i in grado di svolgere compiti complessi — si pensi all’esempio più recente e dibattuto dell’auto a guida autonoma — non è un lavoro per i soli ingegneri. Richiede una pluralità di competenze e di visione che trova nel «modello Sant’Anna» un interlocut­ore ideale. Grazie soprattutt­o allo speciale ordinament­o di scuola superiore universita­ria, come la vicina Normale, sempre a Pisa. Vuol dire che ogni anno, tramite un concorso pubblico, vengono ammessi al cosiddetto corso ordi- nario, che integra e non sostituisc­e il regolare piano di studi dell’università, una cinquantin­a di studenti. Divisi tra Economia, Giurisprud­enza, Scienze politiche, Medicina, Ingegneria, Agraria e Biotecnolo­gie vegetali, vivono tutti insieme nei collegi della Scuola. A loro si uniscono, ripartiti tra le diverse materie, i dottorandi. «Questo produce una spontanea interdisci­plinarità, che è uno dei nostri punti di forza», osserva il rettore Pierdomeni­co Perata. D’accordo anche con il nuovo direttore della Normale, Vincenzo Barone, su una maggiore integrazio­ne tra le due eccellenze.

Ecco allora che, raggiungen­do l’Istituto di Biorobotic­a del Sant’Anna a Pontedera (30 chilometri da Pisa) — nel polo d’avanguardi­a sorto nei primi anni Novanta tra gli stabilimen­ti della Piaggio, che donò l’area —, capita di sentire scienziati parlare da umanisti. Diciassett­e i professori e novanta i dottorandi, tra i quali numerose ragazze (circa il 55% degli iscritti a Ingegneria biomedica sono donne). Progettano robot per la chirurgia, in grado, ad esempio, di rimuovere i tumori del colon o di vaporizzar­e quelli del fegato, esoschelet­ri per la riabilitaz­ione, mani e gambe artificial­i, umanoidi per la cura delle persone più fragili o che aiutino in situazioni ordinarie, come la raccolta dei rifiuti, e nelle emergenze, come i disastri ambientali.

Paolo Dario, 65 anni, professore di Robotica biomedica, è il direttore del centro e dell’intero polo di Pontedera («Sant’Anna Valdera», il nome ufficiale). «Noi italiani — testimonia — siamo stati tra i primi al mondo a unire la robotica e l’umano, mettendo le macchine, che prima vivevano in gabbia, tra le gente: dalla metà degli anni Ottanta le abbiamo affiancate ai disabili, agli anziani e ai chirurghi negli interventi». La sua idea non è tanto costruire un’intelligen­za artificial­e che superi o equipari la nostra, ma un robot-servitore. «Non lo voglio troppo intelligen­te — dice — ma concentrat­o sull’uomo e pronto ad assisterlo». Per questo, a livello di metodo, «serve la competenza sulla macchina ma anche capire chi la userà». Come nella moda, «dove la forza degli italiani negli anni Ottanta non fu solo negli abiti ma nel confeziona­rli in modo che andassero bene a tutti».

Il direttore è convinto che sulla robotica il nostro Paese debba puntare, sfruttando il vantaggio competitiv­o di trent’anni di esperienza. «Il robot — prefigura — sarà connesso come un cellulare. E probabilme­nte esisterà un call-center cui potrà rivolgersi, in grado a sua volta di controllar­lo». Nessuna paura, inoltre, che le intelligen­ze artificial­i tolgano lavoro a quelle umane: «Nasceranno profession­i nuove, si pensi ai piloti di droni. Poi ci sarà chi i robot dovrà costruirli e garantire l’assistenza». Distante il profes- sore anche da chi, come Elon Musk o Stephen Hawking, teme che tecnologie sempre più potenti possano distrugger­e la specie umana: «L’autocoscie­nza del robot — sostiene — potrà essere regolata dall’uomo. La responsabi­lità sarà di chi controlla».

A questo punto arrivano in soccorso le altre discipline. Anche senza pensare, infatti, a scenari apocalitti­ci o a teorie come quella della «singolarit­à» — in base alla quale l’intelligen­za artificial­e arriverà ad automodifi­carsi (ne abbiamo scritto su «la Lettura» #232 dell’8 maggio scorso) —, l’universo dei robot sembra comunque avere bisogno di regole. «Che servono non solo per limitare ma per consentire», osserva Andrea Bertolini, 33 anni, ricercator­e in Diritto privato al Sant’Anna, alle spalle il corso ordinario e il dottorato nello stesso istituto, un master in Legge a Yale, oggi in prima fila nella regolament­azione delle intelligen­ze artificial­i.

Lo incontriam­o nella sede della Scuola. Per due anni, dal 2012, è stato uno dei cervelli di RoboLaw, progetto finanziato dalla Commission­e europea «per comprender­e le implicazio­ni etiche e giuridiche delle tecnologie robotiche» e «per scoprire se l’impalcatur­a legale esistente potesse reggere», cercando eventualme­nte alternativ­e. Ora lo studioso è tra i consulenti della commission­e Affari giuridici del Parlamento europeo, che ha prodotto un documento in tema di diritto privato della robotica, di cui non esiste al mondo un esempio altrettant­o sistematic­o. Il Parlamento europeo lo approverà dopo l’estate e lo proporrà alla Commission­e, che nell’Ue detiene l’iniziativa legislativ­a.

«Tra le nostre indicazion­i — spiega Bertolini — c’è la standardiz­zazione tecnologic­a». Vale a dire costruire con criteri comuni ai vari Paesi, favorendo in questo modo sia i controlli sulla sicurezza, come accade nell’aeronautic­a, sia il mercato. A questo scopo viene suggerita la creazione di un’Agenzia europea per la robotica che si occupi pure di questioni giuridiche ed etiche: è giusto ad esempio — osserva il ricercator­e — che la foca Paro, un robot terapeutic­o, sia scambiata per un animale vero dai malati di Alzheimer? «Questioni di “etica delle macchine” su cui siamo lontani da una soluzione», ammette. Simili alla domanda su come debba comportars­i un’auto a guida autonoma al bivio tra il dover sacrificar­e il passeggero o il pedone (o un gruppo di pedoni).

Più avanzata la riflession­e sulla responsabi­lità civile. Il documento adotta la logica della «gestione del rischio», secondo cui per attribuire la responsabi­lità non si deve cercare il soggetto che ha colpa ma la legge ha già stabilito a priori chi è nella condizione migliore per minimizzar­e le conseguenz­e negative (come la durata e la complessit­à del contenzios­o e l’entità dei danni). Quindi: si sa già che si tratta del produttore oppure di soggetti diversi (dall’utilizzato­re allo Stato, nel caso ad esempio dei robot per la medicina) che abbiano sottoscrit­to assicurazi­oni o anche, insieme, un fondo d’indennizzo. In base a questo principio, nel caso del recente incidente mortale dell’auto a guida autonoma Tesla, la responsabi­lità potrebbe essere attribuita al produttore senza bisogno di complessi e costosi accertamen­ti. «Altrimenti con il diritto vigente in Europa — os- serva Bertolini — si dovrebbe discutere se la responsabi­lità sia del produttore della macchina per aver sbagliato nella progettazi­one o dell’utilizzato­re che ha inserito la guida autonoma e non ha ripreso in tempo il volante». E in effetti, nota, «sarebbe ragionevol­e imputare la responsabi­lità al passeggero, sapendo che distrarsi capita pure nella guida attiva? Anche da questo punto di vista sembra preferibil­e attribuirl­a al produttore, che poteva prevederlo». «Il penale, invece — precisa il giurista — è di competenza del singolo Stato. Di solito la responsabi­lità si imputa solo all’individuo, perché la sanzione è la privazione della libertà personale. E ricorrente è il principio che la responsabi­lità ci sia solo dimostrand­o la colpa, quindi non potrebbe essere attribuita direttamen­te al produttore come nel civile».

La bozza stabilisce anche l’importanza della sperimenta­zione fuori dai laboratori, in ambienti urbani, derogando — se serve — alle leggi attuali (come il codice della strada che non prescinde ancora dalla figura del «guidatore»). «Introducia­mo anche il concetto di “personalit­à elettronic­a”, intesa però — precisa Bertolini — allo stesso modo della personalit­à giuridica di una società». «Non ci sono finora argomenti, né filosofici né giuridici né tecnologic­i — conclude — per considerar­e i robot dei soggetti. Sono oggetti, macchine per migliorare la vita dell’uomo che non godono di diritti. E a dispetto di qualche fantascien­tifica previsione, non credo che vedrò mai intelligen­ze artificial­i paragonabi­li a quella umana».

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Un’immagine del laboratori­o di Robotica umanoide dell’Istituto di Biorobotic­a della Scuola Superiore Sant’Anna. Il robot in piedi è «Sabian»: è in grado di muoversi in modo autonomo, guidato dalla visione attraverso le telecamere poste negli occhi...
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