Corriere della Sera - La Lettura
Addio e altre nostalgie in una lingua plurale
La letteratura austriaca riflette l’equilibrio mutevole tra radici cosmopolite e provincialismo
Quando nel 1981 vinse il premio Nobel, Elias Canetti — che era nato nel 1905 come cittadino turco in Bulgaria, ancora per poco sotto l’impero Ottomano, e che sarebbe morto nel 1994 da cittadino britannico residente a Zurigo — evocò una costellazione di autori per indicare la propria appartenenza, le proprie ascendenze, la sfera in cui orbitava la sua stella: citò Franz Kafka, Karl Kraus, Robert Musil e Hermann Broch. Era una professione di identità austriaca. Era, appunto. Perché gli autori che Canetti chiamava a raccolta come numi tutelari del suo mondo sono proprio quelli che hanno fatto la grandezza del «mondo di ieri», come lo definì nell’omonimo capolavoro l’austriaco Stefan Zweig: di un mondo cui già l’esule ebreo-turco-bulgaro-inglese-svizzero Canetti guardava da lontano come a una patria perduta. Era il mondo finito con l’Austria-Ungheria, dissolto con quell’idea latamente geografica, linguistica, etnografica, religiosa, culturale di Mitteleuropa estesa, ai tempi dell’Impero absburgico, quanto l’Europa danubiana e, in nuce, alla radice, fondamento vivo dell’Europa tout court.
Oggi il più grande autore austriaco vivente, considerato il più importante anche dai suoi detrattori, è sicuramente Peter Handke, che è figlio di padre tedesco — ignoto all’inizio, ritrovato con delusione nella maturità — e di madre slovena, che è nato a Griffen, in Carinzia, sul confine, sebbene riferendosi al proprio paese natale preferisca citare il nome sloveno Stara Vas, e che da un quarto di secolo vive in Francia. L’Austria anche per lui è un ricordo dunque? Un luogo remoto, rifuggito, rifiutato? Da questo senso di lontananza, disse una volta Handke, il senza padre e senzapatria, lo avrebbe salvato la lingua, la sua madrelingua tedesca in cui continua a scrivere dal suo esilio. Anche per Canetti giocò un ruolo cruciale quella che per lui, cresciuto parlando lo yiddish sefardita, fu La lingua salvata e acquisita come lingua d’arte. Dunque l’Austria, a maggior ragione, sarebbe un luogo letterario: della materia di cui sono fatti i sogni?
Invece, nell’Austria che oggi aspira a trincerarsi nella sua fortezza alpina, a isolarsi dall’Europa, a respingere i migranti, a restringersi nei confini nazionali, contraddicendo tutto ciò che ne costituì la gloriosa identità, che cosa fa la letteratura? Resiste, riflette, rivanga nel passato, un poco continua a rimpiangere, ragiona sul concetto di patria, rinnova inesausta le possibilità del linguaggio, fedele alla sua specifica, squisitamente austriaca, vocazione.
L’ultimo numero della rivista «Literatur und Kritik», fondata nel 1966 per proseguire gli intenti della storica «Wort in der Zeit» (La parola nel tempo) che dal 1955 si propose di ricostruire la continuità della grande tradizione letteraria dai tempi della doppia monarchia, si apre con un editoriale del suo direttore, lo scrittore e critico letterario Karl-Markus Gauss (Salisburgo, 1954) sull’intraducibilità della Heimat, il luogo natio, il Paese dell’origine, che in tedesco è inevitabilmente collegato a un sentimento di nostalgia verso qualcosa che non c’è più. In compenso, nota Gauss, che è autore di narrazioni e reportage sulle minoranze etniche e linguistiche europee — i sorabi, gli eromuni, i tedeschi del Gottschee, i sefarditi di Sarajevo, gli albanesi italiani — l’Europa vive della pluralità irriducibile delle patrie: la acasa rumena, la domovina slovena verso cui si nutre l’inconsolabile hrepenenje, un mood che tinge di sfumature slave la lusitana saudade...
Significativo che proprio quest’anno la casa editrice viennese Jung und Jung rilanci come un classico della tarda modernità Geometrische Heimatroman di Gert Jonke, scrittore di Klagenfurt morto sessantatreenne di cancro nel 2009 che con quel titolo del 1969 sgretolava con soave ironia il mito dell’idillio nazionale e ricostruiva «geometricamente» il paesaggio complesso di una patria. Quasi coetaneo di Jonke, ma tuttora vivente è Martin Pollack (Bad Hall, 1944) polonista, traduttore, studioso dell’Europa centro-orientale, autore di Paesaggi contaminati tradotto in Italia da Keller, che ha fatto della ricognizione degli angoli più bui e dimenticati del passato la cifra del suo lavoro. Quest’anno la casa editrice Residenz ha appena pubblicato la sua raccolta di saggi Topografia della memoria. Su questa stessa linea d’onda è la voce originalissima e struggente di Maja Haderlap (classe 1961), che con il poetico L’angelo dell’oblio (pure tradotto da Keller) ha ricostruito le vicende della comunità slovena durante la Seconda guerra mondiale e vinto il premio Ingeborg Bachmann 2011. Orientato a una critica contro la rimozione del passato è anche il romanzo redatto in stile documentario di Erich Hackl (Steyr, 1954) Addio a Sidonie, grande successo anni Novanta, trasposto anche in film, tradotto in Italia da Marcos y Marcos, che racconta la vicenda di una zingarella sottratta alla sua famiglia adottiva e restituita ai genitori naturali il giorno prima di essere deportata ad Auschwitz, ricostruendo il destino dei rom durante l’Olocausto. Mentre l’elemento ebraico, che fu il sale della cultura dell’Austria absburgica si ritrova nei lavori di Anna Mitgutsch (Linz, 1948) tradotti in Italia da Feltrinelli e dalla Giuntina. Un grande autore che nella sua opera mette in contrasto l’idillio agreste e gli orrori del mondo, che è nato in Alta Austria ma, da etnologo, ha girato il mondo e ha vissuto a lungo in Irlanda è Christoph Ransmayr (Wels, 1954) di cui vanno ricordati Il mondo estremo, Morbus Kitahara e La montagna volante, pubblicati in Italia da Feltrinelli.
Una chiara tendenza all’apertura internazionale, al confronto con le altre letterature si nota negli scrittori della generazione più giovane, come il ceco-austriaco Michael Stavaric, nato a Brno nel 1972 e trasferito in Austria all’età di sette anni, la mezza giapponese Milena Michiko Flašar (classe 1980), autrice di Il signor cravatta tradotto in Italia da Einaudi, o la russa Julya Rabinowich che è nata a San Pietroburgo nel 1970, vive a Vienna e rifiuta di essere schedata sotto l’etichetta della Migrantenliteratur. Presto infine leggeremo anche in italiano il grande romanzo (oltre mille pagine) di Clemens J. Setz, autore trentatreenne considerato una rivelazione, nominato per tutti i premi letterari austriaci, intitolato enigmaticamente Die Stunde zwischen Frau und Gitarre (L’ora tra la donna e la chitarra) che uscirà per La nave di Teseo. Ha uno stile insolito, seducente, una tecnica inaudita del dialogo, ma vi si riconosce una certa aria di (grande) famiglia: nella spiccata, straniante — tutta kafkiana! — inclinazione introspettiva.