Corriere della Sera - La Lettura
Una Macondo anche sull’Appennino
Un tono da poema e una struttura corale animano il nuovo romanzo di Mimmo Sammartino. Che sa tratteggiare una varia umanità pulsante di vita in un luogo immaginario
Un andamento narrativo poematico, quello proposto sin dal titolo da Il paese dei segreti addii di Mimmo Sammartino. Un tono che gli è proprio, come dicono i precedenti volumetti: Vito ballava con le streghe in cui prendeva corpo l’ antica credenza delle lamie rivisitata dai racconti familiari; e Un canto clandestino saliva dall’ abisso, sorta di piccolo poema, vero e proprio« Canto di ragazzi morti », che trasfigurava liricamente la vicenda a lungo volutamente ignorata della nave fantasma colata a picco una notte di Natale nel canale di Sicilia con 283 persone; opere originariamente tradotte in quadri teatrali, prima d’essere ridisposte in forma di racconto. E c’è non poco in questo romanzo di quelle esperienze. A partire dal magico di una terra che si incarna in una serie di personaggi che, quand’anche rapportabili a fonti letterarie (con cui comunque il favoloso dialoga), restano frutto d’un immaginario che, come già scriveva in Vito ballava con le streghe, viene fuori «scolpito nell’arenaria, graffiata dalla furia dei venti».
Un immaginario ambientato in una «terra di morti», dall’ossimorico nome di Pietrafiorita; il cui significato sta nei versi di Paul Celan («è tempo che la pietra accetti di fiorire,/ che l’inquietudine abbia un cuore che batte»), mentre a quelli di Pavese («un paese ci vuole/ non fosse che per il gusto di andarsene via» e «che anche quando non ci sei resta ad aspettarti») affida il senso stesso della storia fatta di fughe e ritorni. Perché questo è Pietrafiorita: un paese in «inesorabile disfacimento» dentro i «margini angusti d’Appennino», «un rifugio per i corvi erranti che prediligevano le solitudini per edificare i loro nidi»; «un borgo che, col trascorrere degli anni, si era fatto sempre più spettrale»; un «guscio vuoto che di giorno faceva malinconia e di notte incuteva spavento». Un paese nel quale, una mattina di Natale, a sporcare la neve, si vede scorrere copiosamente «un rivolo scarlatto come sangue, che pareva un’offesa», e che induce i pochi abitanti «che fosse accaduto qualcosa di irreparabile».
Uno strano fenomeno che sarà svelato solo alla fine, dopo un percorso attraverso personaggi che, uno alla volta con la sua storia, sempre però legata a quella altrui, si affacciano quasi come su un palcoscenico (una struttura teatrale da schnitzleriano «girotondo»), in una successione che vede le vicende di quei personaggi inanellate le une alle altre.
E dove l’elemento centrale è suggerito proprio da quel rivolo che scende fino al ci- mitero, per stagnarsi «in una fossa accanto a tre lapidi di marmo» e a «tre pietre più grezze» appartenenti alla famiglia Mea, una delle quali, quella di «Geremia Mea, anni 22», in realtà è vuota essendo stato creduto morto nell’incendio che ha distrutto tutta la famiglia seguito alla tragica esperienza del suo amore per Giuditta Dell’Aria, osteggiato dai genitori di lei, che la chiudono in monastero, con lenta sua mortale consunzione.
E l’ebreo Geremia è davvero l’emblema della umanità dolente, reietta dagli uomini o dalla storia, rimasta a Pietrafiorita. Emblema, proprio col suo ritorno da Geremia il Senzanome («Io sono un Senzanome perché sono morto. Io, per l’anagrafe e per il mondo, non esisto da un giorno di marzo di tanti anni fa»), di tale emarginazione, nella quale comunque in molti — i poveri, appunto, di questo paese sempre più fantasma — rinvengono la dignità della reazione. Reietti come Michele lo sciancato, che ha perso le gambe sul Don; o Ciccio lo z i ngaro, Cat a fe ro «il beone» che vede angeli, Cri s to - baldo il cantastor ie , i l s ord omuto Cataldo, abbandonato neonato in paese da circensi di passaggio e preso in cura da Zia Costanza coi suoi «170 chili e rotti», eroe con Geremia nel salvare il paese dagli sbandati famelici dell’8 settembre; l’imbroglione Mago Mingo; Rosina aggiustaossa, generosissima «bella donna dalle forme generose», e il tenerissimo marito Anacleto Pace. E, di contro, i rappresentanti del potere: il parroco Don Fulgenzio De Santo detto Ammèn e il maresciallo Carmelo Desanto detto Merluzzo «per via dell’alito pesante all’olio di fegato che promanava dalle fessure di denti guasti», cresciuti in un orfanotrofio, e fratelli, più ancor che di sangue, per il loro «odio condiviso verso gli uomini e il mondo».
Con, al centro, Geremia detto il Profeta pure per la sua capacità dolorosamente visionaria legata alle comparse del «canto disperato» d’un usignuolo. Quel canto che annuncia morti, partenze e ritorni. Come quella di suo figlio Habel, avuto da Giuditta Seconda Dell’Aria, nipote della monaca, andatosene fuggendo dai propri fantasmi quando il fratello Tobia è annegato sotto i suoi occhi senza nulla poter fare, a sua volta scampato alla tragedia di Marcinelle (salvato dalla visione pacificante di Tobia e Giuditta Seconda, morta a sua volta di crepacuore per la sorte di Tobia), e il cui ritorno a casa, come il padre, a Pietrafiorita, costituisce il perno del racconto. Una storia che si snoda in un luogo senza tempo (anche se appena malamente scalfito dal tempo storico di disgrazie, come Marcinelle o l’8 settembre), affidata a un tono che sa ben alternare e pure mescolare umorismo e malinconia, anche emozionando. E ben amalgamando con tocco delicato nel magico del racconto fonti letterarie quali la Capinera di Verga, la Macondo di Márquez, il redivivo Mattia di Pirandello, lo Shakespeare di Giulietta e Romeo, così come, nel rivoluzionario testo di Cristobaldo, il Mercantini della Spigolatrice di Sapri.