Corriere della Sera - La Lettura
Chiedi alle parole e avrai le cose
Bilanci Un volume raccoglie oltre quarant’anni di testi di Luigi Ballerini, singolare autore milanese dall’anima neo-sperimentale che mette la lingua al primo posto. Poi viene il mondo
Luigi Ballerini è un poeta milanese alquanto singolare. Nei suoi versi, infatti, alcuni tratti del carattere poetico più propriamente lombardo — la diffidenza verso le asserzioni incontestabili, il senso dell’imprendibilità del reale, la percezione del groviglio quasi sempre ostile della storia, la conseguente circospezione nel tentativo di valutare, giudicare, definire, nominare — si sono congiunti col sentimento (anche ludico) del primato della lingua, meglio ancora del linguaggio, vale a dire con un approccio alla poesia di forte ascendenza neo-avanguardista o comunque sperimentale.
Da questo punto di vista la biografia del poeta può forse dire qualcosa. Nato a Milano, dove tuttora risiede, nel 1940, nella seconda metà degli anni Sessanta ha vissuto a Roma, dove ha intrecciato relazioni anche importanti con scrittori come Alfredo Giuliani, Emilio Villa, Adriano Spatola, Patrizia Vicinelli, Giulia Niccolai, Nanni Cagnone e, soprattutto, Elio Pagliarani, che può essere sicuramente considerato il suo principale riferimento poetico. Come ha scritto Beppe Cavatorta, che ha curato la raccolta delle Poesie 19722015, uscita da poco per Mondadori, l’approccio conoscitivo e i procedimenti di scrittura sottesi ai versi di Ballerini fanno spesso pensare a un altro dei suoi maestri riconosciuti, vale a dire Carlo Emilio Gadda: l’ironia, l’atteggiamento spesso e volentieri sarcastico, la passione per le misture espressive, l’attrito o la fusione tra materiali linguistici di provenienza diversa, l’escursione dall’italiano alto, quasi sempre di matrice letteraria (sono tante le citazioni, i calchi e i rovesciamenti presenti nei suoi versi), a quello regionale o al dialetto, il ricorso a lingue diverse, come il greco antico, il latino e, ovviamente, l’inglese. Ricordo in proposito che Ballerini è stato per alcuni decenni professore universitario a New York e a Los Angeles, e che ha svolto un lavoro molto importante di mediazione tra la cultura poetica italiana e gli Stati Uniti, come saggista, traduttore, editore, curatore, organizzatore di eventi letterari, soprattutto poetici.
A testimoniare la consonanza gaddiana di cui si è detto, ecco allora subito una sequenza da Se il tempo è matto (2010), che riguarda non a caso lo «schivare i pugni di ferro/ di una memoria della storia e delle sue materiali/ eresie»: «Il fiato color sentito dire dei balilla, e dei figli/ della lupa, dei legionari, dei moschettieri, dei camerati/ sansepolcristi, dei labari e dei gagliardetti, il fiato/ delle marie barbise che ancora strillano “buce o / kuce” nelle pagine di emilio gadda».
Il tema della storia, dunque, è senz’altro centrale nella poesia di Ballerini. Basti pensare al suo libro forse più fortunato, Cefalonia (2005), un poemetto a due voci che ha come riferimento l’eccidio nazista della Divisione Acqui successivamente all’armistizio dell’8 settembre del 1943 (vi trovò la morte anche il padre del poeta).
Tuttavia per Ballerini non si tratta, come sarebbe forse più prevedibile, di accertare una possibile verità storica, di trovare delle risposte definitive che preludano magari a una redenzione personale attraverso la trasfigurazione elegiaca di quegli eventi. Al contrario, la direzione del discorso poetico appare rivolta a una liberazione della e dalla storia, a superare qualcosa che di per sé viene riconosciuto come irredimibile attraverso la vitalità, la felicità, l’imprevedibilità dell’immaginazione linguistica.
Nella notizia posta in calce al poema, l’autore dà conto con grande chiarezza della sua concezione della peculiare qualità catartica del linguaggio poetico: «È necessario che alle parole sia concesso di urtarsi, di ammaliarsi vicendevolmente, di attirarsi, di strofinarsi le une alle altre, stimolate da una forte emozione e da una sete non spuria di verità».
Quest’asserzione può forse valere per la sua intera opera poetica: il linguaggio è sentito anzitutto come una forza autonoma di rigenerazione e di liberazione. In questi versi lingua e realtà sembrano infatti scorrere su due piani paralleli, che sempre si rispecchiano, per similarità o più spesso per antifrasi, ma tuttavia senza alcuna possibilità di riconoscersi o determinarsi definitivamente. Già Spatola aveva parlato per lui di «equazioni sempre esatte e sempre indimostrabili tra il mondo e il linguaggio». Certo, come accade per ogni poeta che si rispetti, anche nella poesia di Ballerini le cose non vivono che attraverso le parole e le parole che attraverso le cose. Ma è vero che nell’attivazione di questo rapporto — ecco l’anima neo-sperimentale di questo milanese davvero sui generis — la priorità sembra spettare comunque alla lingua.