Corriere della Sera - La Lettura
L’apocalisse ha un indirizzo: Urbino
I toni colti e il sentimento delle cose nei versi di Alberto Fraccacreta, classe 1989
Il tesoro di un poeta è la vita, non solo la sua, ma anche quella degli altri, quella intuita, pensata, intravista. D’altra parte la fonte segreta di una scrittura è anche quella degli infiniti testi paralleli presenti alla memoria, che possono all’improvviso precipitare in una parola nuova. Alberto Fraccacreta, autore giovane ma raffinato, nato in Puglia nel 1989 e laureatosi in Lettere a Urbino, ne sembra del tutto consapevole. Così nel suo secondo libro, Basso Impero (edito da Raffaelli, con una prefazione di Andrea Gareffi), sviluppa due direttrici contrapposte: una spinta centrifuga, che continuamente cerca la citazione, l’arabesco verbale, l’uso di figure-schermo, e una che mira al cuore dell’espressione, in modo puro, disarmante. Il centro a cui tende, se non sbaglio, è un sentimento rivelatore delle cose, sottratte al loro stato di natura e colte nell’intersezione con il Senso.
Si direbbe che il poeta metta la sua esperienza di lettore, di decifratore di testi altrui, al servizio dell’illuminazione. Ad essa si avvicina per gradi e quasi attraverso degli esercizi, forse anche per evitare l’ingenuità. Così pare che chi scrive cerchi la via ardua e scoscesa «per una madreperla/ d’Altrove», in un libro in cui la Storia e il suo travaglio sono varie volte evocati.
Si deve allora partire dalla competenza del poeta-lettore, esibita anche nella costruzione complessa e in una lingua ricca di cultismi: non c’è dubbio che la prima presenza da registrare sia quella di Montale, dagli Ossi di seppia fino a Satura e oltre. Lo attestano non solo immagini e giunture, ma prima ancora la tessitura fonica dei testi, la loro ruvida sonorità. E il suggerimento montaliano, rimodulato, può andare anche oltre: seguendone la poetica, Fraccacreta pare spesso intento a decifrare segnali e indizi disseminati nel mondo da un Assente. A ben guardare — dice l’autore — il poeta è un amante dell’invisibile. Le forme, le presenze, le creature gli parlano di una «perfetta letizia» che è sempre, francescanamente, qualcosa di «diverso dalla natura».
C’è dunque un punto di fuga nella realtà («[…] quando il creato sarà diverso/ lontano da spazio e separazione perdurante»), di cui questa poesia si occupa con tutta se stessa. Lì, in quella apocalisse ovvero rivelazione piena delle cose, diventerà possibile leggere la filigrana del mondo, di cui per ora resta l’insolubile enigma. In questo giovane poeta la letteratura moderna con le sue forme (tante le evocazioni di autori amati, da Herbert a Zagajewski, da Luzi a Heaney) è come esposta allo specchio ustorio di una alterità assoluta, che prende le forme della santità o della lode mariana. La Vergine è «Fiore teologico», cantata anche attraverso il filtro della pittura barocca di Murillo. La coesione del testo, la finitudine resistono: il segreto delle cose non si svela. Ma la tensione che fa di Urbino una sorta di città celeste (si veda
Apocalisse Urbino, in particolare il brano dedicato a Luzi) è come sul punto di trasfigurare ciò che si vede, di aprire lo spazio di una rivelazione.
Ecco, credo, un poeta di cui sentiremo ancora parlare.