Corriere della Sera - La Lettura
Lutero antisemita diverso da Hitler
Per Martin Lutero «il giudaismo non fu mai, in nessuna parte della sua vita, una religione tollerabile». Lo riteneva «superato» dalla rivelazione cristiana, una sorta di «cadavere vagante», scrive Thomas Kaufmann nel saggio Gli ebrei di Lutero (traduzione di Franco Ronchi, Claudiana, pp. 219, € 19,50). Tuttavia nel testo Gesù Cristo è nato ebreo del 1523, il padre della Riforma sostenne che bisognava trattare il popolo d’Israele in modo rispettoso, cessando le angherie, perché pensava che ciò ne avrebbe agevolato la conversione alla vera fede da lui predicata. Solo che gli ebrei non volevano saperne di abbracciare il protestantesimo. Così nel 1543, deluso e incollerito, Lutero scrisse Degli ebrei e delle loro menzogne, trattato nel quale invocava feroci misure persecutorie, spingendosi oltre l’antigiudaismo di tipo religioso per sconfinare in «una forma premoderna di antisemitismo», con venature razziali. Non stupisce quindi che sotto il nazismo quelle sue posizioni, in epoca illuminista quasi «cadute nell’oblio», poi riscoperte dalla destra nell’Ottocento, siano state rilanciate, spesso in modo omissivo e distorto, per fare di Lutero un precursore del Terzo Reich. Adolf Hitler lo esaltò e autori antinazisti come Peter F. Wiener si convinsero che la sua eredità avesse contribuito a produrre Auschwitz. Kaufmann rigetta questa tesi e nota che l’idea di una «sistematica uccisione di ebrei» fu «del tutto estranea a Lutero». Ma non ritiene che lo si possa assolvere. Va semmai storicizzato, inserito nel clima e nella mentalità del suo tempo, senza però pretendere (alla vigilia dei 500 anni dalla Riforma, che ricorrono nel 2017) di isolare una sorta di ombra, o «lato oscuro», dal resto della sua figura. «L’ombra — scrive Kaufmann — non può essere separata dal corpo che la getta. L’antisemitismo di Lutero è una componente integrale della sua persona e della sua teologia».