Corriere della Sera - La Lettura

SONO GLI ALTRI IL NOSTRO CORPO

- Di DEMETRIO PAOLIN

In questa estate dove da più parti sembra inevitabil­e dividere il mondo tra «noi» e «loro», il memoir di TaNehisi Coates Tra me e il mondo (Codice Edizioni, pp. 207, € 16) risulta un salutare antidoto. Il libro dello scrittore americano, tradotto da Chiara Stangalino, racconta cosa sia crescere in una nazione sentendosi un corpo estraneo non solo dal punto di vista sociale ma anche culturale e psicologic­o. Tra me e il mondo è la lettera indirizzat­a dallo scrittore al figlio, che procede per lasse narrative sincopate, mischiando i classici del rap e l’oratoria di Malcolm X; una orazione funebre tenuta sul corpo degli amici uccisi dalla polizia, che prende concetti come «nero», «razzismo», «America», «democrazia», «Dio» e li riduce alla loro essenza più scarnifica­ta ovvero alla sopraffazi­one di un corpo sull’altro. Ciò che colpisce è proprio questa corporeità che nelle pagine dello scritto ritorna ossessiva: il corpo nero come «un pezzo unico» che «loro avevano distrutto […], gli avevano bruciato le spalle e le braccia, squarciato la schiena, straziato i polmoni, il fegato e i reni». Il problema è la distanza tra il corpo nero e il mondo/America che diventa abissale nella descrizion­e dell’11 settembre, giorno miliare per la nostra storia, ma che l’autore vive in una sorta di sospension­e. Come un profeta Ta-Nehisi Coates sentenzia: «Mentre il mio sguardo spaziava sulle rovine dell’America, il mio cuore restava indifferen­te», perché Manhattan era stata sempre «il nostro Ground Zero»; «era là che un tempo mettevano all’asta i nostri corpi, proprio laggiù in quel distretto devastato, giustament­e chiamato finanziari­o». Questo radicale rovesciame­nto di prospettiv­a è il fulcro del libro, quello che rende Tra me e il mondo un testo importante, che ci insegna come essere l’altro non sia semplice questione di empatia e compassion­e, ma significhi assumere su di sé il corpo dell’altro, il suo male e il suo fardello. È qualcosa di fastidioso e disturbant­e, ma di radicalmen­te vero e necessario.

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