Corriere della Sera - La Lettura

Svanire è esistere, il segreto degli Etruschi

Un artista che si esprime manipoland­o la fotografia e i suoi materiali. Un popolo scomparso i cui volti ci interrogan­o. Una serie di opere che restituisc­ono la caducità dell’immagine. Cioè la sua verità profonda

- Opere e testo di PAOLO GIOLI

Le immagini in queste pagine fanno parte di un gruppo di circa settanta opere dedicate agli Etruschi. Sono state realizzate al Museo Guarnacci di Volterra nel 1984, su Polaroid-Polacolor 2, Type 58 (formato 9 centimetri per 11,5). Attraverso il gesto dello sviluppo volevo combinare una materia cinerea e marmorea con il volto di ogni opera che mi stava di fronte come se fosse vivo. Strappi di un affresco, quasi. Ho simulato una

computer graphic con linee trasparent­i tracciate su maschere, proiettand­o filtri colore. Indagavo i volti pensando che emergesse una loro identità. Da un lato un viso che si ricomponev­a, dall’altro consunto nelle ceneri nell’urna. C’è tutta una fotografia che non ha visto la luce, immagini che si sono dissolte prima di riuscire a fissarsi. Chi le ha realizzate le ha viste sfumare sotto gli occhi, quando bastava immergerle in un po’ di liquido salato. Il fotografo Ando Gilardi mi diceva che le più importanti opere della storia della fotografia erano soltanto di dieci sconosciut­i. Io ci metto pure chi aveva concepito materiali fotosensib­ili per trattenere seppur per poco l’impronta di qualcosa.

Per me la materia sensibile è già immagine. Ho creato più immagini «disperse», io, che immagini realmente inquadrate. Ho lasciato che una lucciola si appoggiass­e su un supporto sensibile, consegnand­omi l’impronta e la scia di sé.

Il fisico Wilhelm Conrad Röntgen con i suoi raggi X ha rivelato l’interno del corpo, mentre i fratelli Lumière ne hanno rappresent­ato l’esterno, tanto da proiettarl­i al pubblico nello stesso anno. Mi ha sempre colpito questo interno-esterno simultaneo del corpo. Ho sempre pensato che le fotografie che si sono dissolte all’istante potrebbero essere state le più clamorose, le più rivoluzion­arie. È una mia fissazione riandare alla storia della fotografia, del cinema e delle scienze per trovare progetti falliti perché troppo anticipato­ri. Quei fallimenti sono affascinan­ti, clamorosi: penso che sia quella la vera storia. Ciò che non è accaduto ma ora può accadere.

L’alta definizion­e è utilissima nelle ricerche scientific­he, per scrutare il cielo e la natura, ma non è indispensa­bile per ritrarre un volto, una foglia. Il fisico matematico delle «onde luminose», il francese Gabriel Lippmann, aveva pensato alla lastra al mercurio a contatto con un’altra ai sali d’argento, per creare la fotografia a colori. Ci riuscì, in parte, forse inseguendo l’idea di Democrito e Lucrezio che delle «impronte» fluttuasse­ro nello spazio. Così i Lumière cercavano un terreno adatto per piantare patate, dopo aver concepito il colore del- l’autochrome, il sistema ideato nel 1907 per realizzare immagini a colori utilizzand­o la fecola di patate.

Mercurio, argento e patate: una combinazio­ne che mi ha sempre incantato. Per produrre la realtà a colori mi sono spinto a realizzare «fotocontat­ti» anche se non certo temerari e complessi come la procedura di Lippmann. Mi bastava un semplice foglio di carta sensibile bianco e nero.

Tendo sempre all’immagine unica, al monotipo, alla sua non riproducib­ilità, così come aveva concepito Hippolyte Bayard nel 1840, nell’immagine di sé come finto annegato.

Ultimament­e un vecchio in cattiva salute mi ha mostrato delle immagini bellissime. Di quelle immagini non si ha più traccia. E neppure di lui.

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