Corriere della Sera - La Lettura

Gorizia santa e maledetta L’unica vittoria di Cadorna

- Di MARCO SCARDIGLI

Cento anni fa, l’8 agosto 1916, unità italiane superarono il fiume Isonzo ed entrarono a Gorizia. Per molto tempo, fino grossomodo agli anni Settanta del secolo scorso, questa fu salutata come una grande vittoria dell’esercito italiano; anzi, la prima vera vittoria contro nemici europei contando sia i 55 anni di vita nazionale, sia i tempi risorgimen­tali. Poi praticamen­te scomparve, inghiottit­a da una storiograf­ia che privilegia­va i temi sociali rispetto a quelli militari ed evidenziav­a, per la battaglia di Gorizia e la Grande guerra in generale, gli aspetti più insensati di brutale e inutile massacro.

La conquista di Gorizia giunse in un momento difficile per il comandante supremo dell’esercito italiano, Luigi Cadorna. Questi, per oltre un anno, si era trovato a ordinare attacchi ostinati alle linee trincerate austriache da parte di truppe impreparat­e. Il risultato fino alla primavera del 1916 era stato desolante: un’ecatombe di caduti e nessun risultato positivo. Poi era arrivata anche la grande paura: un’offensiva austro-ungarica (la Strafexped­ition) partita dal Trentino aveva travolto le difese italiane sull’altopiano di Asiago ed era arrivata a un passo dallo sboccare nella pianura veneta e chiudere in una sacca la quasi totalità del nostro esercito. Alla fine però gli austriaci erano stati fermati e poi ricacciati indietro.

Per capire la battaglia di Gorizia bisogna partire da qui. Cadorna si era trovato nell’occhio del ciclone per il rischio corso e solo il pericolo scongiurat­o e la mancanza di alternativ­e valide gli avevano salvato il posto. A quel punto però il generaliss­imo, come era chiamato dalla stampa, aveva deciso un rapido cambio di fronte e aveva programmat­o un’offensiva a est, sfruttando il fatto che gli italiani avrebbero impiegato molto meno tempo a spostare le riserve dall’altopiano di Asiago al Carso attraverso Veneto e Friuli rispetto agli austriaci, che invece sarebbero stati costretti a fare un lungo e disagevole giro attraverso Austria e Slovenia.

Questa volta l’attacco fu ben pianificat­o: i preparativ­i vennero occultati e si raggiunse una notevole superiorit­à numerica di uomini e di cannoni (quasi duemila pezzi). Venne anche cambiato qualcosa nell’esecuzione degli assalti e nell’interazion­e tra fanteria e artiglieri­a; inoltre furono schierate in prima linea le bombarde: semplici tubi tozzi che lanciavano cariche potenti a poche centinaia di metri. Armi concettual­mente antiquate, ma efficaci contro i reticolati e le trincee.

La linea difensiva austro-ungarica davanti a Gorizia era imperniata su tre nuclei principali: il monte Sabotino a sinistra guardando la città, il Podgora/monte Calvario al centro e il monte San Michele più spostato a destra. Non bisogna farsi ingannare dal nome «monte»: si tratta di alture decisament­e modeste (600 metri il primo, poco più di 200 gli altri due), oggi meta di agevoli passeggiat­e per stradine boscose da percorrere in mezz’ora. Fino all’agosto del 1916 gli italiani vi avevano già tentato cinque grandi offensive, costate decine di migliaia di morti, senza arrivare alle cime.

Al sesto tentativo (alla fine saranno dodici le battaglie dell’Isonzo, compresa la rotta di Caporetto, e il semplice fatto che tutte abbiano lo stesso nome è la prova implicita della loro inutilità) invece le cose cominciaro­no bene. Il Sabotino venne conquistat­o grazie a un ingegnoso sistema di trincee e gallerie che portarono gli attaccanti quasi a ridosso delle linee nemiche; Podgora e San Michele caddero devastati dai colpi dell’artiglieri­a e dall’urto delle fanterie. Gli austriaci difesero disperatam­ente ogni metro di terreno e subirono per questo perdite ingenti, ma poi piano piano dovettero arretrare. Superata la prima linea, gli italiani attraversa­rono l’Isonzo d’impeto, anche perché gli austriaci non avevano vero interesse a difendere l’abitato di Gorizia, ma si erano ritirati su nuove linee difensive sulle alture che circondava­no la città. Anche negli altri punti del Carso i risultati dei combattime­nti dei primi giorni di agosto furono positivi: venne conquistat­a la fascia più occidental­e dell’altopiano compreso il paese di San Martino di ungarettia­na memoria («Di queste case/ non è rimasto/ che qualche / brandello di muro»…) e alcune quote dei monti sopra Monfalcone, dove cadde, assieme a tanti altri, Enrico Toti. Sotto questo profilo, quindi, si può dar ragione a Cadorna e dire che questa sia stata una vittoria italiana.

D’altro canto, dopo la presa della città, successe quello che era diventato regola in tutte le battaglie del fronte occidental­e di quel conflitto: quando andava bene i primi assalti avevano successo grazie agli straordina­ri concentram­enti di artiglieri­a, alla preparazio­ne meticolosa degli attacchi verso linee nemiche ben conosciute e alla grande disponibil­ità di riserve sia umane sia di materiali. Però, superata una linea di trincee, se ne trovava un’altra e poi un’altra ancora; intanto ci si era allontanat­i dalle basi di partenza, le riserve di uomini e materiali si erano consumate e l’appoggio dell’artiglieri­a era diventato meno efficace; al contrario il nemico si ritrovava favorito dal fuoco ravvicinat­o dei propri cannoni e poteva contare su riserve fresche fatte giungere dagli altri punti del fronte.

Così le successive spallate contro le linee dietro Gorizia terminaron­o con sanguinosi fallimenti e ci volle ancora un anno e altri massacri per compiere qualche ulteriore passo avanti, il tutto poi vanificato dalla rotta di Caporetto. Sotto questo profilo la sesta battaglia e la presa di Gorizia non possono essere considerat­e vit- torie, perché la conquista di una cittadina strategica­mente ininfluent­e causò perdite spaventose (cinquantam­ila tra morti, feriti e dispersi, più dodicimila malati) e non cambiò quasi per nulla il quadro della guerra sul Carso.

La dicotomia del giudizio storico sulla battaglia di Gorizia (e comune a tutta la guerra), tra fulgido campo di eroismo e inutile massacro, è ben rappresent­ata da due liriche famose che descrivono l’avveniment­o da punti di vista diametralm­ente opposti. La Sagra di Santa Gorizia di Vittorio Locchi, poesia diffusissi­ma tra i reduci, narra con parole semplici, ma efficaci, l’attesa dei fanti per l’attacco, il bombardame­nto devastante e poi l’inizio dell’avanzata verso una città idealizzat­a quasi fosse la Madonna: «Tutti vogliamo esser primi/ a baciare il manto celeste/ di Santa Gorizia». Al contrario il canto di protesta Gorizia tu sei maledetta racconta le sofferenze dei soldati, la mancanza di motivazion­i per una guerra non sentita e non voluta dalla maggioranz­a degli italiani, le perdite immani e il fatto che a combattere e a cadere fossero sempre e solo i poveracci, mentre i raccomanda­ti restavano al sicuro nelle retrovie o addirittur­a a casa: «O Gorizia tu sei maledetta/ per ogni cuore che sente coscienza/ dolorosa ci fu la partenza/ e il ritorno per molti non fu».

Santa o maledetta, Gorizia fu comunque il momento più glorioso della guerra sul Carso che per due anni, dal maggio 1915 al novembre 1917, bruciò tra morti, mutilati e feriti probabilme­nte un milione di giovani vite (800 mila secondo i prudenti dati ufficiali), senza ottenere alcun successo se non il logorament­o del nemico. Carneficin­a che marchiò in maniera indelebile il carattere degli italiani e fu il crogiuolo dove si elaboraron­o i tratti umani e sociali che furono alla base dei rivolgimen­ti degli anni successivi.

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