Corriere della Sera - La Lettura
Golpista Asservì le istituzioni al suo potere personale invece di riformarle
«Cesare è l’uomo totale e perfetto. Agì e creò come nessun mortale prima e dopo di lui… lo storico può solo tacere quando, una volta ogni mille anni, s’imbatte nella perfezione». Come si potrà perorare la condanna di colui che per Theodor Mommsen rappresenta una sorta di incarnazione del superuomo nietzschiano? Prima ancora di chiedersi in nome di quali crimini debba giudicarlo e di individuarne i limiti, chi si accinge a questo difficile compito dovrà fissare i criteri del giudizio. Così, occorrerà innanzitutto rifuggire dall’errore, oggi diffuso, di giudicare il passato con parametri attuali; si valuterebbe altrimenti la condotta del Nostro in nome di comportamenti che presso i suoi contemporanei destavano assai poco scandalo. La guerra gallica poté, ad esempio, esser biasimata allora non tanto a causa dell’infinita strage inflitta ai Celti, un milione e 200 mila morti secondo Plinio il Vecchio, più che sufficiente, oggi, a valere al proconsole un’incriminazione per genocidio; quanto in nome di un sia pur teorico codice di guerra che proprio in quegli anni, tra il 54 e il 51 a.C., Cicerone andava codificando nel De re publica. Della giusta causa necessaria secondo lui a rendere accettabile ogni conflitto, qui, nemmeno a parlarne; e anche il rispetto della fides — del corretto comportamento, diremmo noi — fu, in un caso almeno, confutato da quel Catone su cui torneremo a breve. Se mai un atto di aggressione vi fu, questo fu la guerra gallica di Cesare; che seppe però nobilitarla agli occhi di un settore dell’opinione pubblica avocandosi il merito (!) di aver liberato Roma dal metus Gallicus, dal terrore ormai anacronistico di quei Celti che, tre secoli avanti, avevano conquistato l’Urbe.
Del pari, possiamo storcer la bocca di fronte al fatto che la conclamata clementia Caesaris, riservata di solito ai nemici intestini (persino, talvolta, a personaggi dalla discutibile moralità), sia stata rifiutata invece a un nemico nobile come Vercingetorige, fatto uccidere dopo il trionfo. Anche in questo caso, tuttavia, occorre por mente al fatto che la clementia era per i concittadini, non per i nemici esterni; e che altri vinti — Giugurta, ad esempio — avevano conosciuto analoga sorte.
Ma consideriamo ora un testimone che viene dal passato: Catone Uticense. Questi aveva combattuto Cesare per tutta la vita; e, sconfitto, era stato capace di sorprendere e persino di sconcertare il grande avversario sottraendosi con il suicidio a quella clementia («O Catone, ti invidio la tua morte come tu mi hai invidiato il potere che avevo di darti la salvezza») che non poteva accettare. Come ha sostenuto Seneca, «a nessuno la clemenza si addice di più che ad un principe o ad un re»; e per l’ultimo autentico repubblicano accettarla avrebbe significato riconoscere la superiorità di Cesare sulle leggi prima che su se stesso, derogando dai suoi princìpi. Che si sublimano nella decisione pervicace di darsi la morte, sprigionando infine una forza fatale proprio a chi quei princìpi ha conculcato: Cesare finì, si è detto, per cader vittima «delle idee per cui Catone era morto». Circa le ambizioni monarchiche di Cesare le prove sono innumerevoli, e traspaiono talvolta dalle sue stesse parole; ma basti qui la testimonianza di colui che, come ha detto Dante ( Purgatorio, I, 71-72), rifiutò la vita in nome di una libertà amata sopra ogni cosa.
Veniamo, però, alla colpa per me forse più grave: l’aver destabilizzato le strutture esistenti senza rimpiazzarle. Pur senza abolirle, Cesare snaturò le istituzioni pubbliche, facendone meri strumenti di potere. Cosa contava ormai un Senato i cui vuoti egli aveva riempito di suoi partigiani e la cui consistenza era stata inoltre aumentata a 900 membri, tutti creature asservite al cenno del dittatore? E che cos’era il consolato se non un mezzo ormai prostituito a compenso dei servizi resi? Alla morte di un console, l’ultimo giorno dell’anno 45, si giunse a nominare un suffectus, un sostituto, per ventiquattr’ore soltanto; al punto che Cicerone, con sottile sarcasmo, potè elogiare il vigile magistrato capace di non chiudere occhio per tutta la durata della carica.
Ma vi è un altro aspetto che va sottolineato. Cominciata di fatto con il cumulo di cariche e segni di ossequio tributatigli dopo la vittoria in Africa, la scalata di Cesare verso un potere forse non regio, certo assoluto, si sviluppò tramite un crescendo di onori che, impossibili anche solo da elencare qui, pur non motivati da alcuna vera ragione, lo assimilavano a un dio. Esiste, in proposito, una tradizione secondo cui il gioco, spudorato e sottile, puntava in realtà a far emergere il tiranno per poi abbatterlo; ed è stato scritto che, per questo, «il dittatore fu colmato di onori come un animale sacrificale» (Meier).
Ma perché accettarli? Giocò l’indubbio narcisismo di Cesare? Questo solo punto meriterebbe un capitolo a sé. E, però, egli si era forse reso conto dei rischi; e si sentiva incapace di modificare, adattandole a sé, le stesse strutture che pure aveva ormai sistematicamente violentato. Forse sentiva la situazione sfuggirgli di mano? Non tutto gli dèi danno alla stessa persona, era stato ricordato tempo prima ad Annibale; e ciò potrebbe esser vero anche per Cesare, per il quale la spedizione contro i Parti, progettata presto, già dopo la conclusione della guerra in Spagna, rappresentò forse il sogno di una via di fuga, di un ritorno dilatorio e probabilmente salvifico a quanto sapeva far meglio. Anche a lui (e a Mario, che tentò lo scippo a Silla della campagna contro Mitridate…) può attagliarsi la definizione che è stata data di Scipione: «Uomo degno d’esser ricordato, ma per le arti della guerra più che per quelle della pace».
A gestire il potere sarebbero bastati pochi strumenti, imperio e potestà tribunizia; il resto erano orpelli, stravaganti e addirittura pericolosi. A consolidarlo contavano, invece, le giustificazioni date del potere stesso. «Se un uomo tanto intelligente non trovò la soluzione, chi la troverà ora?» si chiese, a proposito della crisi politica, Caio Mucio poco dopo la morte di Cesare. La trovò colui che Luciano Canfora ha chiamato «il figlio di dio», quel Caio Giulio Cesare Ottaviano che fu «non solo il più scaltro, crudele, perspicace e flessibile dei capi della guerra civile, ma anche il fondatore della monarchia, duro e prudente, paziente e risoluto» (Meier), e seppe congelare il mutamento cesariano in secolare struttura politica.