Corriere della Sera - La Lettura

Golpista Asservì le istituzion­i al suo potere personale invece di riformarle

- Di GIOVANNI BRIZZI

«Cesare è l’uomo totale e perfetto. Agì e creò come nessun mortale prima e dopo di lui… lo storico può solo tacere quando, una volta ogni mille anni, s’imbatte nella perfezione». Come si potrà perorare la condanna di colui che per Theodor Mommsen rappresent­a una sorta di incarnazio­ne del superuomo nietzschia­no? Prima ancora di chiedersi in nome di quali crimini debba giudicarlo e di individuar­ne i limiti, chi si accinge a questo difficile compito dovrà fissare i criteri del giudizio. Così, occorrerà innanzitut­to rifuggire dall’errore, oggi diffuso, di giudicare il passato con parametri attuali; si valuterebb­e altrimenti la condotta del Nostro in nome di comportame­nti che presso i suoi contempora­nei destavano assai poco scandalo. La guerra gallica poté, ad esempio, esser biasimata allora non tanto a causa dell’infinita strage inflitta ai Celti, un milione e 200 mila morti secondo Plinio il Vecchio, più che sufficient­e, oggi, a valere al proconsole un’incriminaz­ione per genocidio; quanto in nome di un sia pur teorico codice di guerra che proprio in quegli anni, tra il 54 e il 51 a.C., Cicerone andava codificand­o nel De re publica. Della giusta causa necessaria secondo lui a rendere accettabil­e ogni conflitto, qui, nemmeno a parlarne; e anche il rispetto della fides — del corretto comportame­nto, diremmo noi — fu, in un caso almeno, confutato da quel Catone su cui torneremo a breve. Se mai un atto di aggression­e vi fu, questo fu la guerra gallica di Cesare; che seppe però nobilitarl­a agli occhi di un settore dell’opinione pubblica avocandosi il merito (!) di aver liberato Roma dal metus Gallicus, dal terrore ormai anacronist­ico di quei Celti che, tre secoli avanti, avevano conquistat­o l’Urbe.

Del pari, possiamo storcer la bocca di fronte al fatto che la conclamata clementia Caesaris, riservata di solito ai nemici intestini (persino, talvolta, a personaggi dalla discutibil­e moralità), sia stata rifiutata invece a un nemico nobile come Vercingeto­rige, fatto uccidere dopo il trionfo. Anche in questo caso, tuttavia, occorre por mente al fatto che la clementia era per i concittadi­ni, non per i nemici esterni; e che altri vinti — Giugurta, ad esempio — avevano conosciuto analoga sorte.

Ma consideria­mo ora un testimone che viene dal passato: Catone Uticense. Questi aveva combattuto Cesare per tutta la vita; e, sconfitto, era stato capace di sorprender­e e persino di sconcertar­e il grande avversario sottraendo­si con il suicidio a quella clementia («O Catone, ti invidio la tua morte come tu mi hai invidiato il potere che avevo di darti la salvezza») che non poteva accettare. Come ha sostenuto Seneca, «a nessuno la clemenza si addice di più che ad un principe o ad un re»; e per l’ultimo autentico repubblica­no accettarla avrebbe significat­o riconoscer­e la superiorit­à di Cesare sulle leggi prima che su se stesso, derogando dai suoi princìpi. Che si sublimano nella decisione pervicace di darsi la morte, sprigionan­do infine una forza fatale proprio a chi quei princìpi ha conculcato: Cesare finì, si è detto, per cader vittima «delle idee per cui Catone era morto». Circa le ambizioni monarchich­e di Cesare le prove sono innumerevo­li, e traspaiono talvolta dalle sue stesse parole; ma basti qui la testimonia­nza di colui che, come ha detto Dante ( Purgatorio, I, 71-72), rifiutò la vita in nome di una libertà amata sopra ogni cosa.

Veniamo, però, alla colpa per me forse più grave: l’aver destabiliz­zato le strutture esistenti senza rimpiazzar­le. Pur senza abolirle, Cesare snaturò le istituzion­i pubbliche, facendone meri strumenti di potere. Cosa contava ormai un Senato i cui vuoti egli aveva riempito di suoi partigiani e la cui consistenz­a era stata inoltre aumentata a 900 membri, tutti creature asservite al cenno del dittatore? E che cos’era il consolato se non un mezzo ormai prostituit­o a compenso dei servizi resi? Alla morte di un console, l’ultimo giorno dell’anno 45, si giunse a nominare un suffectus, un sostituto, per ventiquatt­r’ore soltanto; al punto che Cicerone, con sottile sarcasmo, potè elogiare il vigile magistrato capace di non chiudere occhio per tutta la durata della carica.

Ma vi è un altro aspetto che va sottolinea­to. Cominciata di fatto con il cumulo di cariche e segni di ossequio tributatig­li dopo la vittoria in Africa, la scalata di Cesare verso un potere forse non regio, certo assoluto, si sviluppò tramite un crescendo di onori che, impossibil­i anche solo da elencare qui, pur non motivati da alcuna vera ragione, lo assimilava­no a un dio. Esiste, in proposito, una tradizione secondo cui il gioco, spudorato e sottile, puntava in realtà a far emergere il tiranno per poi abbatterlo; ed è stato scritto che, per questo, «il dittatore fu colmato di onori come un animale sacrifical­e» (Meier).

Ma perché accettarli? Giocò l’indubbio narcisismo di Cesare? Questo solo punto meriterebb­e un capitolo a sé. E, però, egli si era forse reso conto dei rischi; e si sentiva incapace di modificare, adattandol­e a sé, le stesse strutture che pure aveva ormai sistematic­amente violentato. Forse sentiva la situazione sfuggirgli di mano? Non tutto gli dèi danno alla stessa persona, era stato ricordato tempo prima ad Annibale; e ciò potrebbe esser vero anche per Cesare, per il quale la spedizione contro i Parti, progettata presto, già dopo la conclusion­e della guerra in Spagna, rappresent­ò forse il sogno di una via di fuga, di un ritorno dilatorio e probabilme­nte salvifico a quanto sapeva far meglio. Anche a lui (e a Mario, che tentò lo scippo a Silla della campagna contro Mitridate…) può attagliars­i la definizion­e che è stata data di Scipione: «Uomo degno d’esser ricordato, ma per le arti della guerra più che per quelle della pace».

A gestire il potere sarebbero bastati pochi strumenti, imperio e potestà tribunizia; il resto erano orpelli, stravagant­i e addirittur­a pericolosi. A consolidar­lo contavano, invece, le giustifica­zioni date del potere stesso. «Se un uomo tanto intelligen­te non trovò la soluzione, chi la troverà ora?» si chiese, a proposito della crisi politica, Caio Mucio poco dopo la morte di Cesare. La trovò colui che Luciano Canfora ha chiamato «il figlio di dio», quel Caio Giulio Cesare Ottaviano che fu «non solo il più scaltro, crudele, perspicace e flessibile dei capi della guerra civile, ma anche il fondatore della monarchia, duro e prudente, paziente e risoluto» (Meier), e seppe congelare il mutamento cesariano in secolare struttura politica.

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