Corriere della Sera - La Lettura

Democratic­o Riuscì a procurarsi il consenso delle masse e degli stessi avversari

- Di LUCIANO CANFORA

Prima dell’attentato mortale del 15 marzo 44 a.C., le parole che Cicerone, Bruto, Cassio, Asinio Pollione (citiamo solo i più noti) rivolgono a Cesare oscillano tra il deferente e l’estatico. Le tre orazioni «cesariane» di Cicerone sono, in tal senso, un vero monumento di dedizione: dedizione che diremmo sincera (Cicerone non era tenuto a pronunziar­e quei discorsi) verso il dittatore.

Vengono in mente le parole che il santo padre del liberal-liberismo italiano Luigi Einaudi scriveva al Duce negli anni 1933-35. Il 6 luglio 1933 Einaudi scrive: «In questi ultimi mesi il Patto a quattro, e, più direi, il Suo discorso» hanno «esaltato grandement­e il nome e il governo dell’Eccellenza Vostra. (…) L’E.V. e il suo governo riscuotono oggi plauso particolar­e in quella sezione dell’opinione pubblica mondiale, che è sempre stata la più critica e difficile da guadagnare». E si lancia, nel corso della stessa epistola, in un raffronto tra Germania hitleriana e Italia mussolinia­na in cui si legge: «L’Italia è cosa tutta diversa. Mussolini non perseguita gli Ebrei, non licenzia a centinaia i professori. Ha chiesto ad essi bensì un giuramento (da Einaudi medesimo prestato, ndr) ma poi li lascia liberi nelle loro opinioni scientific­he (…) lascia a Hitler il vanto di ripetere l’incendio della Biblioteca di Alessandri­a». Cenno, quest’ultimo, a una in realtà inesistent­e malefatta di Giulio Cesare. Dopo di che Einaudi si offre: «Il tema potrebbe essere assai più largamente svolto se di una verbale esposizion­e si trattasse e non di una lettera già fin troppo lunga. Le sue vedute lungimiran­ti di pacificazi­one internazio­nale e di tolleranza interna ( sic) sono contrastat­e non certo dagli uomini anziani che si sono tratti in disparte ma dagli omuncoli che si arrampican­o sulle spalle del fascismo».

Il 2 luglio 1934, cioè un anno dopo, torna alla carica e chiede daccapo udienza al Duce: «Per esporLe — scrive — qualche riflession­e di carattere generale economico intorno a cui ho concluso, dopo meditazion­e, esservi in Italia una sola persona alla quale valga la pena di manifestar­la». Il 28 maggio 1935 gli scrive ancora: «Noi studiosi ammiriamo e amiamo i fascisti di ingegno, di studio, di coraggio e di carattere».

Cicerone che nella supplica a Cesare Pro Marcello, dopo aver premesso che «nella tua salvezza è compresa anche la salvezza di ciascuno», invita Cesare a guardarsi da coloro che tramano nel suo entourage (gli «omuncoli»!): «Io, com’è giusto, penso continuame­nte a te, notte e giorno, e già soltanto il pensiero dei casi umani, degli eventi incerti della salute fisica e della fragilità della nostra natura mi tiene in ansia; io mi rammarico consideran­do che la Repubblica dev’essere immortale e però essa si sustanzia in te, cioè nell’animo di un unico mortale. Se poi ai casi prettament­e umani viene ad aggiungers­i anche un complotto di attentator­i, qual mai divinità possiamo illuderci che possa o voglia proteggerc­i?». E in effetti una trappola come quella tesa da Marco Antonio a Cesare con l’offerta della corona di re alla festa dei Lupercali può ben suonare come conferma della ansiosa, e affettuosa, rivelazion­e che Cicerone fa, parlando direttamen­te a Cesare, nel corso della difesa di Marcello.

Quando, ucciso ormai Cesare e sprigionat­asi una nuova guerra civile (come Cesare aveva previsto che sarebbe accaduto in caso di sua eliminazio­ne fisica), Cicerone, per qualche mese capo della maggioranz­a senatoria, parla e scrive contro Antonio, nuovo leader delle forze cesariane, sente il bisogno di disegnare un profilo di Cesare che vorrebbe essere equanime. Esso si apre con la rapida ed efficace rassegna delle qualità dell’ucciso: «Aveva ingegno, spirito critico, memoria, cultura, applicazio­ne, previdenza, diligenza». Prosegue con il riconoscim­ento dei metodi differenzi­ati con cui Cesare aveva saputo legare a sé le masse, i suoi seguaci e persino gli avversari. E conclude, con parole che possono persino suonare autocritic­he: «Aveva introdotto in un popolo libero l’assuefazio­ne all’asservimen­to» ( Seconda Filippica).

Non può dirsi invece che altrettant­o controllat­i nel giudizio si mostrasser­o, poi, quei liberali che avevano convissuto, indenni e talora salmodiant­i, col Duce. Del pur prudente Einaudi può ricordarsi a questo proposito l’intervento sul «Corriere della Sera» dell’8 settembre 1946, in cui — dopo aver chiarito che il fascismo aveva «bruttato» il vocabolari­o italiano — scrive tra l’altro che era «dovere trarre profitto dall’assassinio di Matteotti per abbattere Mussolini e i suoi seguaci». E Croce stesso, che pure aveva votato, da senatore, la fiducia al governo Mussolini anche dopo l’assassinio di Matteotti, nel suo diario (2 dicembre 1943) scrive di lui: «Rifletto talvolta che ben potrà darsi il caso, e anzi è da tenersi per sicuro, che i miei colleghi in istoriogra­fia (li conosco bene e conosco i loro cervelli) si metteranno a scoprire in quell’uomo tratti generosi e geniali e addirittur­a imprendera­nno di lui la difesa. (…) Perciò mentalment­e m’indirizzo a loro, quasi parlo con loro, colà, in quel futuro mondo che sarà il loro, per avvertirli che lascino stare, che resistano alla seduzione di tesi paradossal­i (…) perché l’uomo, nella realtà, era di corta intelligen­za, ignorante di quell’ignoranza sostanzial­e che è nel non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile» ( Taccuini di guerra).

Più equanime fu Antonio Gramsci, che, diversamen­te da Einaudi e Croce, di Mussolini fu vittima. Nelle pagine sul «cesarismo» (Quaderno 13) inquadra il ruolo storico di Mussolini e della sua vittoria politica nella storia del cesarismo in Europa e dei suoi diversi aspetti.

Sulla scala dei millenni, Cesare è diventato «mito»: un mito che ha avuto vita distinta rispetto a quella, molto accidentat­a e controvers­a, del «cesarismo». Onde è potuto accadere che un grande avversario del «cesarismo» bismarckia­no nonché grande storico di Roma, Theodor Mommsen, scrivesse di Cesare, a conclusion­e quasi del suo libro letteraria­mente più efficace, la Storia di Roma, queste forse troppo impegnativ­e parole: «Come il pittore può dipingere tutto, fuorché la bellezza perfetta, così lo storiograf­o che incontra ogni mille anni una sola volta una perfezione non può che tacere».

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