Corriere della Sera - La Lettura
Jay McInerney Ritorno (o quasi) agli anni Ottanta
Stati Uniti Trentadue anni dopo il folgorante debutto e dieci dopo l’ultimo romanzo pubblicato, lo scrittore torna ora in libreria con una storia che si rivela la terza parte di un trittico cominciato nel 1992. È un testo sulla delusione delle proprie asp
Riecco Russell, riecco sua moglie Corrine, con un magistrale flashback compare persino Jeff: sono di nuovo tra noi personaggi già accompagnati nella loro avventura a New York. Anche la città è sempre un luogo di sogni pericolosi e difficili. Ma adesso vediamo uomini e donne nella bufera della crisi finanziaria, di altri turbamenti sentimentali, della mezza età. E in agguato c’è sempre il «Grande Gatsby»
«C’ erano una volta, non molto tempo fa, giovani uomini e donne arrivati in città perché amavano i libri, perché volevano scrivere romanzi o racconti o addirittura poesie, o perché volevano essere associati con la produzione e la distribuzione di questi manufatti e con le persone che li creavano. Per i frequentatori di biblioteche suburbane e librerie di provincia, Manhattan era la scintillante isola delle Lettere». Un incipit così potrebbe soltanto essere di Jay McInerney, scrittore ma anche biografo ufficiale della New York degli ultimi trent’anni: e infatti sono le parole che aprono il suo nuovo romanzo Bri
ght, Precious Days (Knopf), dal 2 agosto nelle librerie americane, letto in anteprima da «la Lettura».
È il primo romanzo di McInerney dopo una pausa lunga dieci anni nella quale ha pubblicato racconti, si è sposato (per la quarta volta), ha continuato la sua attività di critico di vini prima per il «Wall Street Journal» poi per «Town & Country». Bri
ght, Precious Days è un romanzo sui fantasmi del passato — il passato come palla al piede ma anche, a volte, come scialuppa di salvataggio —, sulla fragilità del sogno americano in generale e in particolare del sogno cultural-aspirazionale di una certa America (quella per l’appunto che vede in New York il centro del mondo, culturale e non solo). È un romanzo sulla delusione delle proprie aspettative, sull’appropinquarsi della mezza età anagrafica e dello spirito. Non è una satira perché all’umanista McInerney manca, dello scrittore satirico, la cattiveria e — utilissimo optional — l’odium humani generis di maestri della categoria come Waugh e Capote. È una riflessione sulla grande crisi finanziaria del 2008 e sui suoi prodromi, sulla fragilità del matrimonio e sulla complessità della gestione di una modern family con figli nati grazie a donazione di ovuli e fecondazione in vitro. McInerney torna a raccontare, per la terza volta, le storie di personaggi che ha immaginato quasi un quarto di secolo fa:
Bright, Precious Days è l’ultima (per ora) puntata di una trilogia cominciata nel 1992 con Si spengono le luci e continuata nel 2006 con Good Life (tutto McInerney è edito in Italia da Bompiani).
Il romanzo del 1992 racconta la storia del boom anni Ottanta di Wall Street e del
crash del 1987 attraverso le vicende di una coppia, Russell e Corrine, marito e moglie, editor di una casa editrice (che sogna di scalare) lui e analista di una banca d’affari a Wall Street che sogna di diventare sceneggiatrice lei (lavora alla banca «Silverman» nella quale è fin troppo facile riconoscere la Goldman Sachs). Il loro migliore amico è Jeff, giovane scrittore che ha pubblicato una raccolta di romanzi di grande successo ma più che lavorare a un romanzo passa il tempo in compagnia di modelle ad assumere droghe di ogni genere. Good Life, del 2006, ritrova gli stessi personaggi nel 2001 (anche se la vera protagonista è la New York ferita dal crollo delle Torri Gemelle). Ecco adesso in Bright, Precious Days ambientato tra il 2006 e il 2008, la grande crisi (finanziaria, sentimentale, di mezza età) dei protagonisti superstiti. Perché anche se Jeff è morto alla fine del primo libro, pa- gando il prezzo di una vita vissuta pericolosamente, è a pieno titolo co-protagonista di questo romanzo: quello di Russell, Corrine e Jeff è un triangolo e poco importa che uno dei suoi vertici sia invisibile (nella cronologia dei tre romanzi, Jeff muore di Aids nel 1988), meno ancora importa che i tradimenti di Bright, Precious Days avvengano ovviamente con altre persone.
Jeff — che McInerney ci presenta in un flashback, l’unico capitolo scritto al presente indicativo di tutto il libro, un pezzo di bravura che riporta McInerney nel suo decennio preferito, i favolosi Ottanta — è lo scrittore che McInerney avrebbe potuto diventare — o meglio non diventare — se si fosse lasciato distrarre da tutta quella cocaina, da tutte quelle modelle, sull’onda del successo-monstre da 700 mila copie del suo libro d’esordio, Le mille luci di New
York. Ma anche Russell lo è, per stessa ammissione dell’autore che sognava New York, convinto che sarebbe diventato un romanziere ma che se non fosse successo avrebbe scelto di diventare editor di narrativa, proprio come il suo personaggio. McInerney ha avuto quattro mogli e una lunga storia d’amore paragonabile — per passione, durata e vicinanza — a un matrimonio ma questa trilogia è, per prendere in prestito il titolo di uno dei libri più belli e meno citati di Philip Roth, la sua «controvita»: quello che sarebbe potuto succedere.
Bright, Precious Days è il romanzo della maturità di uno scrittore diventato famoso per essere immaturo, enfant terrible che non perdeva una festa a Manhattan come il protagonista del suo libro, la maturità di Jay che una volta andava a Hollywood a vendere i diritti dei suoi romanzi e a scrivere sceneggiature (per un film sulla vita breve e tristissima della modella Gia Carangi interpretata dalla debuttante Angelina Jolie), poi si trasferiva in Tennessee per amore (matrimonio finito male che gli ha lasciato però due figli che adora e un libro ambientato al Sud, L’ultimo dei Savage, che alla sua uscita vent’anni fa fu sottovalutato). Bright, Precious Days ripensa al tema portante del libro più amato da McInerney, Il Grande Gatsby, cioè il talento tutto americano per reinventare se stessi e la propria vita: in questo romanzo, che viene pubblicato 32 anni dopo quel debutto lontano e folgorante, McInerney — attraverso i suoi personaggi — descrive New York con l’amore di sempre e i soliti pezzi di bravura: i bizzarri e un po’ ridicoli risto-
ranti alla moda (in questo caso un gastropub che serve cocktail di vodka tagliata con brodo di bue e testicoli fritti come specialità della casa), la chirurgia plastica delle dame dell’Upper East Side e le cene di beneficenza tra grandi sorrisi (finti) e odi implacabili (verissimi, dietro le spalle), i loft di SoHo una volta visti come l’apoteosi della propria scalata alle mille luci di New York e oggi accettati per quel che sono, cioè una grande scomodità per chi aspira ad abitare in modo normale con i propri figli.
Non è il romanzo del disamore per New York perché la fiamma della passione di McInerney per la città dove vive da un quarantennio non si spegnerà mai — basta vedere l’incipit — ma è quello dell’accettazione dei limiti di questa città così unica e interessante ma che non può essere la soluzione di tutti i propri problemi di adulto, anche ammesso che sia la realizzazione dei propri sogni di gioventù. I limiti, per l’appunto, della reinvenzione di se stessi: New York non più come portale verso un mondo meraviglioso sognato da lontano ma come casa — bella e complicata come un loft — nella quale cercare di vivere una vita normale. Tra i fantasmi del passato — il migliore amico che non c’è più e che tua moglie non ha mai dimenticato — e quelli di un presente fatto di tradimenti o, almeno, della loro possibilità (subito, nei primi due capitoli, prima Russell poi Corrine rischiano di finire a letto con qualcun altro).
McInerney deve fare i conti, negli Stati Uniti, con critici che non gli perdonano la bella vita, la passione per i vini d’annata (e magari la sua attuale moglie, miliardaria), che considerano non mantenuta la promessa del suo libro d’esordio. Richard Ford, parlando con «la Lettura» qualche settimana fa nella sua casa nel Maine, difendeva Jay McInerney dall’accusa, che gli viene spesso rivolta, di aver esaurito l’inchiostro magico con il suo primo libro e di non essere più riuscito a replicare quel successo. Ford, estimatore del collega più giovane, ammetteva che sì, «quando uscì quel romanzo in molti pensavano che i trent’anni successivi sarebbero stati suoi ma non è stato così. Però Si spengono le luci è un gran bel libro». Fernanda Pivano, che a Jay ha voluto bene e che lo aiutò con generosità, scrisse che «sarà lui a rappresentare l’America di questo mezzo secolo, come è stato lui a studiarla, conoscerla e spiegarla più di chiunque altro». E comunque se davvero McInerney verrà ricordato, tra 50 o 100 anni, per Le mille luci di New York, e soltanto per quel libro, si può rammentare quello che Orson Welles da vecchio spiegò a Peter Bogdanovich. Il giovane regista si stupiva di come Greta Garbo continuasse a essere considerata una leggenda anche se, a ben guardare, era apparsa soltanto in due film davvero grandi. L’anziano maestro, l’ex ragazzo che a 26 anni aveva girato Quarto Po
tere per poi passare il resto della vita e della carriera a rincorrere nei meandri del suo talento senza fine il miraggio di quel successo irripetibile, disse che non c’era bisogno di fare due capolavori: «Ne basta uno».