Corriere della Sera - La Lettura

Damien Hirst Sono un agnello

Ha rivoluzion­ato l’arte: «la Lettura» l’ha incontrato a Londra, accanto a un «gonfiabile» di Koons e a un incredibil­e quadro nero e blu di Bacon. «Bello, eh? Ne ho un altro a casa, vicino alla tv. Quando sono stanco di tv, guardo Bacon. È decisament­e megl

- Dal nostro inviato a Londra STEFANO BUCCI

Sarà perché il suo universo d’artista per quanto prezioso (nel 2008 uno stock di 54 opere è stato venduto da Sotheby’s per 88,7 milioni di euro) può apparire francament­e inquietant­e: teschi in platino tempestati da diamanti; animali di ogni genere sezionati e cristalliz­zati in formaldeid­e; vassoi infestati da mosche e vermi; lettini da ambulatori­o, pinze chirurgich­e e bisturi sigillati in un acquario con pesci tropicali (vivi). Sarà perché è circondato da un’aura degna di una rockstar, ricca e famosa, intrattabi­le e litigiosa: nel 2012, giusto alla vigilia della grande retrospett­iva che la Tate Modern gli aveva dedicato, il critico Julian Spalding dalle colonne dell’«Independen­t» si era scagliato contro di lui definendol­o «non meritevole di essere considerat­o un artista». Sia come sia, un’intervista a Damien Hirst può apparire quasi come un tuffo nella vasca di uno dei suoi pescecani (gli stessi di The Immortal e The Wrath of God).

Eppure l’elegante palazzina a due piani, a pochi passi dalla Wallace Collection, sede della Science Ltd, la società di produzione di Hirst, non sembrerebb­e davvero un luogo di sofferenza, piuttosto l’accoglient­e residenza di qualche famiglia londinese molto abbiente. O lo studio di qualche designer di grido. «Damien sarà qui tra pochi minuti — spiega una delle due ragazze in nero della reception —. Possiamo offrirle qualcosa? Un white coffee?». La prima sorpresa arriva in bagno, dove la carta da parati con teschi bianchi su sfondo nero e rosso (firmata Damien Hirst) riporta in primo piano la contestata miscela di ispirazion­e e marketing che ha fatto la fortuna e la maledizion­e di questo artista. All’arrivo di Jude, la fedele assistente bionda che seguirà Damien (in silenzio e senza mai alzare gli occhi dal block notes) durante tutta la successiva intervista, si può cominciare: una rampa di scale, una porta bianca che si apre su una grande stanza luminosa con moquette scura, due divani grigi davanti al caminetto e un tavolo da lavoro su cui spiccano un piatto di frutta fresca («Altrimenti Damien mangerebbe ogni genere di schifezze») e un gonfiabile del suo caro amico Jeff Koons: un Elefante coloratiss­imo di cui Hirst, si scoprirà poi, possiede anche il «gemello», ovve- ro Titi, versione postmodern­a del canarino di Gatto Silvestro.

Appena il tempo per notare, sopra il caminetto, un’incredibil­e quadro nero e blu e Damien Hirst (di fatto uno degli artisti più ricchi del mondo) finalmente appare: pochi capelli grigi, una faccia a suo modo comune illuminata dagli occhi azzurri costanteme­nte velati da malinconia e non da quella aggressivi­tà che ci si sarebbe aspettati. «Bello vero? È di Francis Bacon». Cosa le piace di questo quadro? «Il mistero, il buio, quello che nasconde e quello che ogni volta posso scoprire. Ne ho anche un altro nella mia casa — aggiunge —, l’ho messo accanto alla television­e così quando sono stanco della tv guardo Bacon, che mi dà sicurament­e molte più emozioni». La passione per Bacon (è uno dei tanti autori nella collezione personale di Hirst insieme a Picasso, Warhol, Giacometti, Richard Prince e Frank Auerbach) viene in qualche modo da lontano, da quando Damien era solo una delle promesse della Young British Art che frequentav­a il Groucho Club di Soho con la segreta speranza di incontrare il maestro. Una passione ricambiata dallo stesso Bacon, che in una lettera datata 20 marzo 1992 scriveva a un amico, il pittore Louis le Brocquy: «Caro Louis, alla Saatchi c’è un’installazi­one molto interessan­te di un giovane chiamato Damien Hirst, l’installazi­one si chiama A Thousand Years ed è fatta di due sezioni, in una c’è una testa di mucca tagliata, nell’altra c’è uno sciame di mosche che volano attorno a quella testa».

La stessa posizione che Hirst manterrà per tutta l’intervista (gambe raccolte e piedi sospesi da terra) sembra ricordare quella di alcune celebri figure di Bacon (come la Seated figure del 1954 oggi alla Tate).

Nel suo fortissimo accento del Sud (è nato a Bristol il 7 giugno 1965), Damien anticipa così, prima ancora dell’intervista definitiva, alcuni piccoli frammenti di un ritratto privato dove la parola che più spesso ricorrerà sarà death (morte) e dove le impression­i più forti sono quelle del disagio e del pericolo. «Cosa si ricorda di Milano? Un bellissimo negozio in via Montenapol­eone che vendeva forbici e coltelli affilatiss­imi, le lame taglienti mi affascinan­o tantissimo» (d’altra parte The History of Pain del 1999 è un’instal- lazione-trionfo fatta tutta di lame). Napoli le piace? «Molto, perché è dirty » (insomma è «bella, sporca e cattiva»). E di Firenze, dove nel 2007 ha esposto il suo teschio con diamanti addirittur­a nelle stanze di Palazzo Vecchio? «Quella fiorentina è stata un’esperienza bellissima, perché era come se il mio teschio fosse finito nella collezione dei Medici», collezioni­sti anche loro di meraviglie insolite, mostruose, inquietant­i, magiche (animali, insetti e altre rarità degne di Hirst).

Il libro che sta leggendo? «È quello che sto leggendo con mio figlio più piccolo, Cyrus, che ha 11 anni: è l’ultimo della trilogia Demon Road di Derek Landy. Da poco ho finito Sapiens. A brief history of humankind di Yuval Noah Harari perché amo i libri che mettono insieme arte, storia e scienza mentre il mio classico di sempre è il Leviatano di Thomas Hobbes» (d’altra parte Leviathan è anche il titolo di una delle sue opere più famose). Cosa le sarebbe piaciuto fare se non avesse fatto l’artista? «A gay dancer» oppure «il giocatore di biliardo» (chissà se sarà poi vero o se è l’ennesimo scherzo di questo cinquanten­ne dall’aria costanteme­nte tormentata): vero è invece che Damien nella sua fattoria del Gloucester­shire, dove si rifugia spesso con i tre figli (un rapporto fortissimo che «li fa mettere davanti a tutto il resto») coltiva l’orto e alleva gli animali nella stalla (per piacere e non per trasformar­li eventualme­nte in opere). E che ama la cucina: «Il mio piatto preferito è il riso al curry. Non mi riescono molto bene invece le torte salate». Mentre il tartufo è uno dei suoi cibi preferiti: così il suo ristorante Pharmacy2 all’interno della Newport Street Gallery, il laboratori­o nella zona sud di Londra che nel 2015 ha trasformat­o in un museo per ospitare artisti amici (in questi giorni tocca a Gavin Turk), nella lista dei cibi contiene inevitabil­mente The Norcia’s truffle, il tartufo nero di Norcia, appunto.

Prima dell’intervista vera e propria (iniziata via email e conclusa nella sede di Science, che pubblichia­mo nelle pagine successive) Damien trova ancora il tempo per uno schizzo: una pinna, poi un’altra, poi la grossa coda e infine il muso. Insomma, l’ennesimo pescecane di Hirst. Il suo autoritrat­to? «Assolutame­nte no. Io sono un agnello, non uno squalo».

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