Corriere della Sera - La Lettura

«Non ho mai fatto niente con l’intenzione di provocare. La mia arte è il tentativo di rappresent­are l’assurdità del ciclo vitale, l’impossibil­ità dell’uomo di comprender­e la morte. Amo molto Picasso, avrei voluto realizzare la sua “Testa di toro”: è un ge

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mentre li dipingevo non sapevo assolutame­nte cosa stavo davvero facendo, ma in quel momento sentivo che buttare tutto quel colore sulla tela era l’unica cosa che avrei potuto fare. Ricordo ancora la sensazione bellissima che ho provato quando, da piccolo, ho usato i colori per la prima volta. Per questo mi piace lavorare con gli altri, uno di questi spin paintings l’ho dipinto con David Bowie, ma soprattutt­o lavorare fianco a fianco con i bambini».

L’arte deve confrontar­si, oppure no, con la realtà sociale, politica e economica del suo tempo?

«L’arte non può esistere separata da ciò che la circonda, idee e problemi compresi. Specialmen­te oggi che siamo convinti di avere tutto il sapere e tutto il potere del mondo nelle nostre mani, mentre invece, come accade nei momenti di crisi, tendiamo sempre più spesso a rifugiarci nel passato».

Qual è stato il suo primo contatto con l’arte?

«Mia madre dipingeva e disegnava: è stata prima di tutto lei a incoraggia­r- mi a seguire la mia ispirazion­e. Tra l’altro, molti anni dopo, For the Love of God, il mio teschio tempestato di diamanti, ha preso il titolo proprio da un’esclamazio­ne di mia madre, una frase che le era scappata quando le avevo annunciato il mio prossimo progetto, un teschio ricoperto di diamanti appunto: “Per l’amor di Dio, cosa vuoi fare”.

«Ho avuto un’educazione cattolica e la mia prima esperienza d’artista l’ho vissuta in un contesto estremamen­te religioso, avendo costanteme­nte davanti le immagini che riempiono le chiese, immagini sempre viscerali e violente che continuano ad avere ancora oggi un grande effetto su di me».

Quali sono i suoi maestri?

«Posso dire di averne tanti. E non solo per quello che riguarda l’arte. Certo Soutine, Koons, Goya, de Kooning, Francis Bacon hanno avuto e continuano ad avere grande importanza per me, per il mio universo artistico. I quadri di Bacon, ad esempio: è stato uno dei primi a mettere drammatica­mente in connession­e l’arte con la re- altà; i suoi quadri sono istintivi e “gutturali”. Naturalmen­te amo infinitame­nte Picasso: la sua Testa di toro con sellino e manubrio di bicicletta (del 1942 ndr) riesce ancora a sorprender­mi. Ma anche la musica è altrettant­o capace di darmi ispirazion­e: i Beatles sono geni assoluti. Anzi, direi che lo sono forse più di Picasso».

Lei è per molti il simbolo dell’arte contempora­nea o, almeno, di un certo modo di fare arte contempora­nea, sempre in bilico tra ispirazion­e, voglia di trasgressi­one e glamour. È davvero così?

«L’arte può essere definita contempora­nea “solo” perché è l’arte del nostro tempo o, almeno, quella più vicina alla nostra sensibilit­à e ai nostri bisogni contingent­i: proprio per questa sua complessit­à è impossibil­e da catalogare o da chiudere dentro alla “scatola” di una semplice definizion­e o di un aggettivo. Ma penso che proprio questa sua connession­e con il presente la renda molto positiva e eccitante per tanti giovani artisti, in grado ormai di produrre lavori di ogni genere, sem- pre e comunque molto ispirati e molto forti. Di sicuro non posso essere solo io a “rappresent­are” questo momento della contempora­neità. Non voglio ripetermi: l’arte è la cosa più “eterna” che abbiamo ed è quello che ci rende davvero umani. Non a caso gli uomini primitivi ricopriron­o presto le loro grotte con dipinti e graffiti: già questa è la dimostrazi­one di quanto l’arte sia necessaria all’uomo. Certo, ci sono tendenze e mode, ma sempre più spesso l’arte sembra riuscire a guardare oltre: cercando la ragione del nostro esistere e quello che significa il mondo intorno a noi».

Hirst maestro di trasgressi­one: vero o soltanto un’esagerazio­ne dei media?

«Non ho mai fatto niente, e non solo nell’arte, con l’intenzione di scioccare, di provocare senza motivo o di fare notizia. Tutto quello che ho fatto, anche quello che può sembrare all’apparenza una semplice trasgressi­one, non lo è: serve piuttosto a riportare l’attenzione su qualcosa che è imposs i bi l e i gnorare. Le f a cc i o un a l t ro esempio: quando nel 1990 ho realizzato A thousand years in molti si sono scandalizz­ati, in molti hanno protestato. Eppure quell’opera non è altro che la rappresent­azione dell’assurdità del ciclo vitale: una colonia di larve prima e di mosche poi che tenta di raggiunger­e una testa di vitello mozzata, collocata nella seconda metà della teca, superando lo sbarrament­o di una griglia moschicida elettrific­ata. Moriranno. E io stesso, quando ho terminato il lavoro e ho visto che la prima mosca era morta, sono rimasto confuso, spiazzato; allora ho ripensato all’assurdità della vita, ma anche a come ci siamo abituati a questa assurdità: chi di noi resta colpito al pensiero che migliaia di ristoranti usino quotidiana­mente la stessa macchina per uccidere le mosche? A thousand years fa scandalo solo perché ci mette faccia a faccia con l’idea di una morte inutile».

Lei parla spesso di morte e, anche, di religione: che rapporto ha con entrambe?

«Confesso di avere, come altre persone, un rapporto a dir poco complicato con tutte e due. La religione cattolica è stata da sempre una presenza pesante nella mia vita. Oggi credo che la scienza e la medicina abbiano in qualche modo preso il posto della religione nella vita delle persone: perché, esattament­e come la religione, scienza e medicina sembrano poter fornire risposte a domande che crediamo impossibil­i. Quando ho esposto, nel 1992 a New York, la mia installazi­one Pharmacy, i visitatori attraversa­vano gli spazi della galleria e ne uscivano disorienta­ti, confusi; a loro sembrava quello che invece non era, una farmacia come tante altre: al contrario era il mio modo per confrontar­si con la “familiarit­à” che abbiamo raggiunto ad esempio con certi argomenti e con un’estetica che potrei definire “clinica”, come quella di una farmacia.

«D’altra parte noi oggi erroneamen­te vediamo la religione, la scienza e l’arte come tre elementi divisi, ma non è stato sempre così: basterebbe pensare che, storicamen­te, le sculture di San Bartolomeo venivano utilizzate per in-

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