Corriere della Sera - La Lettura

L’internazio­nale del sovranismo prospera sugli errori della Ue

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Dopo la Brexit il sovranismo è ormai un treno in corsa. Vuole difendere lo Stato nazionale da ogni interferen­za esterna e recuperare l’autodeterm­inazione dei veri sovrani democratic­i, ossia i popoli nazionali. Sono i francesi ad aver inventato il termine, che tocca molte corde della storia transalpin­a: de Gaulle, la République, i giacobini, la Marsiglies­e. Da qualche anno, Marine Le Pen ha fatto del souveraini­sme una bandiera, che immancabil­mente brandisce quando parla di Europa, di mondializz­azione, di immigrazio­ne.

Fuori dei confini francesi, la nozione di sovranismo è una new entry. Ma sta rapidament­e affermando­si ai due estremi dello spettro politico. A destra, ispira quasi tutte le formazioni di protesta contro le politiche di apertura promosse da Bruxelles, compresa la moneta unica. A sinistra, suscita interesse crescente all’interno dell’area no global e anticapita­lista. Il nuovo movimento di Yanis Varoufakis (Diem25) chiede ad esempio una Europa democratic­a in cui «tutta l’autorità politica parta dai popoli sovrani». Nel corso delle varie campagne elettorali di questo 2017 sentiremo spesso slogan come questi, anche in Italia.

Il sovranismo va preso sul serio? Certamente sì. Innanzitut­to, perché promette di trasformar­si in un collante ideologico molto efficace e capace di durare nel tempo. Ma soprattutt­o perché dietro il suo fumo c’è un po’ del proverbial­e arrosto: ossia questioni rilevanti per l’organizzaz­ione politica dell’Europa, a cui occorre fornire delle risposte. Le radici culturali del sovranismo risalgono agli anni Settanta del secolo scorso, quando la destra francese elaborò un nucleo di valori ispirati al tradiziona­lismo cattolico (Lefebvre), al culto della nazione (de Gaulle e la France eternelle), al cosiddetto «etno-differenzi­alismo» identitari­o e antimondia­lista (allora propugnato da Alain de Benoist). In questa cornice normativa (promossa pubblicame­nte da circoli culturali come il Grece o il Club de l’Horloge), il sovranismo si è fatto strada come Leitmotiv, come un bene supremo da perseguire perché discende da fatti quasi naturali: l’esistenza di popoli nazionali omogenei, titolari di sovranità. I Le Pen — e soprattutt­o Marine — sono stati molto abili nel trasformar­e i valori sovranisti in strumenti di aggregazio­ne del consenso. La cornice ideale è stata trasformat­a in una «verità», dalla quale scaturisco­no inconfutab­ili imperativi di cambiament­o, soprattutt­o riguardo alla Ue. Le crescenti paure sociali di fronte alle dinamiche di integrazio­ne ha offerto al Front national (e ai suoi omologhi in altri Paesi) vaste praterie elettorali.

Il sovranismo oggi attrae come un faro i perdenti della globalizza­zione, fornendo loro un «nemico»: le multinazio­nali, i mercati internazio­nali, gli immigrati. E soprattutt­o le élite di governo e i loro suggeritor­i ( les intellos, gli intellettu­ali mondialist­i). La loro colpa è duplice: hanno aperto i confini e trasferito sovranità, prima; non proteggono i perdenti, adesso. E così il sovranismo accentua i toni populisti, in un circolo comunicati­vo che si autoalimen­ta e cementa la variegata platea dei perdenti in un nuovo blocco sociale, guidato da una leader carismatic­a.

Il Front National è stato finora il padre nobile del sovranismo europeo. Il maggior successo sul piano pratico è però stato conseguito dal movimento indipenden­tista di Nigel Farage, promotore della Brexit. Non tutti i sistemi politici offrono le condizioni propizie per replicare il percorso francese o quello inglese. Ma eventuali deficit nei punti di partenza possono essere compensati da effetti eco (il discorso di Marine Le Pen raggiunge ormai direttamen­te le opinioni pubbliche europee) e da una rete sempre più stretta di raccordi organizzat­ivi fra Paesi. La conversion­e della Lega al sovranismo nazionale (e non più padano) e le recenti iniziative di Gianni Alemanno e Francesco Storace possono essere viste come «lepenismo d’importazio­ne». I grillini hanno esordito come «faragisti» ma la loro piattaform­a sull’Europa e la loro stessa collocazio­ne ideologica sono sempre più ambigue.

Il sovranismo non è dunque un fenomeno effimero. Diventerà un tratto caratteriz­zante del panorama politico europeo. E anche se le sue prospettiv­e di conquistar­e ruoli di governo non sono alte, per il momento, la sola presenza di formazioni lepeniste (nonché di elementi sovranisti nella sinistra radicale) è destinata a pesare sulle scelte e i programmi degli altri partiti e dei governi.

La sfida sovranista va presa sul serio anche perché solleva questioni oggettivam­ente importanti. La globalizza­zione ha tanti meriti ed è destinata a procedere per conto suo (Donald Trump vuole arginarla: vedremo). Prima o poi si ricreerà un equilibrio politico tra vantaggi e svantaggi dell’apertura su scala mondiale. Ma la transizion­e sarà lunga e i Paesi avanzati non sono attrezzati per ammortizza­re qui ed ora i contraccol­pi sociali. Prima della crisi, l’Unione Europea sembrava aver trovato una via «alta»: riforme struttural­i per la competitiv­ità, modernizza­zione del welfare per far fronte ai nuovi rischi. Forse l’impostazio­ne era irrealisti­ca e mal disegnata sin dall’inizio. Con la crisi scoppiata nel 2008, il sogno di una transizion­e morbida, inclusiva e ben governata, verso un nuovo modello di crescita sembra essersi infranto. La Ue è spesso accusata di colpe non sue. Ma le politiche di Bruxelles sono diventate sempre meno efficaci e, quel che è peggio, sempre più divisive. È su questi due fronti che incontriam­o la questione della sovranità.

A chi appartiene oggi in Europa il potere «ultimo» di

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