Corriere della Sera - La Lettura
L’America scese on the road
1957: Jack Kerouac pubblica il suo capolavoro; 1947: Gregory Corso, arrestato per furto, inizia a scrivere poesie in carcere; 1917: nasce Fernanda Pivano. Storia di un’epopea letteraria iniziata molto prima e non ancora finita Jay McInerney: i Beat sono s
Lo scrittore delle mille luci di New York, delle discoteche di Manhattan, delle malefatte degli squali di Wall Street e delle conversazioni scintillanti ai party letterari dell’Upper West Side, tiene nel suo studio, dietro la scrivania, appesa sul suo «wall of fame», il «muro della fama», una foto di Jack Kerouac. Scattata — e firmata — da Allen Ginsberg. L’autore di Sulla strada fuma una sigaretta, su un balcone dell’East Village nel 1953, bello come un attore di Hollywood. Il giubbino chiaro sulla camicia aperta e i pantalonacci da lavoro, un libro che spunta dalla tasca — icona letteraria e hipster allo stesso tempo.
La Beat Generation ispirazione di Jay McInerney? «È chiaro!». Jay sorride: verrebbe da pensare che il suo santo protettore, in letteratura, sia Fitzgerald — che gli ha tramandato il dono intuitivo, Nanda Pivano dixit, della frase felicemente illuminante che ci fa capire tutto d’un personaggio o di una situazione — ma in realtà è altrettanto forte, per lui, l’influenza dei Beat. «Ero letteralmente in fasce quando Ginsberg ha scritto Urlo, ma quella dei Beat è una generazione di scrittori la cui influenza non svanisce mai, e mai svanirà. Né mai svanirà il fatto altrettanto evidente che sono stati loro i primi romanzieri e poeti a essere cool, belli e con le idee “avanti” e con uno stile di vita interessante. Mi spiego: al liceo sognavo di diventare un poeta (un dato biografico che ha prestato al Russell Calloway della sua trilogia, Si spengono le luci e Good Life e La luce dei giorni, tutti editi da Bompiani, ndr) e la voce di Ginsberg, il suo Urlo, fu una rivelazione e un’ispirazione assoluta. Una voce così intensa e totalmente americana di cui soltanto Whitman poteva dirsi predecessore a pieno titolo».
Secondo McInerney nonostante il tema del viaggio, nonostante il loro pellegrinaggio per il mondo, dal Messico al Marocco, i Beat restano profondamente, assolutamente, al cento per cento americani. «La loro è la reazione all’America degli anni 50, quella di Eisenhower, conservatrice e dominata dai bianchi suburbani: quell’America, non è una coincidenza, che suscita una tale nostalgia in molti americani da avere spinto Donald Trump alla Casa Bianca sulla semplice promessa di “rendere di nuovo grande l’America”, cioè di farla tornare a quei tempi. Non a caso prima degli anni 60, e della loro grande democratizzazione di tutto. Quella era l’America del maccartismo, e i Beat dicevano: fermi tutti, c’è un altro modello, un mondo nuovo da esplorare. Allora ecco che loro scrivevano di sesso, di misticismo orientale, di droga. Di viaggi. Raccontavano una frontiera prima che gli anni 60 la facessero esplorare. Hanno annunciato il cambiamento. E, forse più importante di tutto, scrivevano di cultura pop».
McInerney, insieme con altri romanzieri americani della sua generazione — Bret Easton Ellis prima di tutti — venne attaccato da tanti critici, negli anni 80, perché c’era tanta cultura pop tra le pagine dei suoi libri, tanta musica. «Sono stati i Beat a scoprire che la cultura pop poteva coesistere tranquillamente con la cultura letteraria, con i libri, con quella che sbrigativamente e non troppo correttamente potremmo definire “cultura alta”. Hanno scoperto la continuità del discorso culturale che ora diamo per scontata ma negli anni 50 doveva essere sembrata pura follia». E la cosa più interessante, secondo McInerney, è «che i Beat erano una squadra, con tutte le loro differenze, e incredibilmente per un certo periodo sembrava che quella squadra stesse vincendo. Da autori marginali — o messi senza complimenti sotto processo come capitò a Ginsberg — diventarono un punto di riferimento».
Jay McInerney ha conosciuto Allen Ginsberg, William Burroughs, Paul Bowles. Che cosa avrebbero pensato della loro popolarità ancora così grande in questo 2017? E delle nostalgie per gli anni 50 trasformate in movimento politico? «Sapevano di aver cambiato le cose, per i lettori ma anche per gli scrittori che sarebbero venuti dopo. Sapevano anche, per dolorosa esperienza personale, che il cambiamento è complicato da far accettare a tutti, che ci sono resistenze ogni volta che qualcuno cambia le cose. Loro non sareb- bero stupiti, no, non mi pare».
È inevitabile chiedere un ricordo personale. Jay sorride: «Sa chi mi presentò a Allen Ginsberg, che viveva non lontano da casa mia a New York? Nanda Pivano, una volta che mi chiamò per sapere se avevo tempo di andare a cena con lei e Allen! Nanda era fatta così. Mi portò a un festival letterario a Conegliano (Treviso) con Ginsberg e Lou Reed. Fu abbastanza bizzarro. Intimidito? Inevitabile. Ginsberg era un uomo pieno di interessi, molto molto brillante: quando lo conobbi era già sulla sessantina e in non perfette condizioni di salute ma mi dimostrò grande attenzione, grande curiosità. Uno dei più grandi poeti americani di sempre, un’icona, che si prendeva la briga di chiedere a un giovane scrittore a cosa stava lavorando, sinceramente curioso... Burroughs non poteva non intimidire: grandissimo carisma. Bowles? Andai a trovarlo a casa sua, a Tangeri. Avevo appena pubblicato il primo romanzo. Rimasi lì una settimana...».
McInerney, fin qui molto loquace, si ferma. Poi riprende: «Come è stato, da ragazzo, essere a casa dell’uomo che ha scritto Il tè nel deserto? E quei racconti magnifici? Vederlo in quella casa modesta tenere banco, elegantissimo, bere tè alla menta con lui? Come si faceva a non essere ispirati semplicemente dalla sua compagnia? Ci siamo scritti molte lettere, al mio ritorno a New York».
Se c’è una cosa che gli scrittori della generazione di McInerney hanno imparato è che le mode letterarie sono crudeli: Jay, 33 anni dopo il debutto resta uno scrittore importante. Bret Easton Ellis anche — se e quando deciderà di tornare a scrivere, perché dopo Imperial Bedrooms si divide tra Twitter, gli spot delle case di moda come modello e i serial tv come regista — però impressiona che uno scrittore che pareva straordinariamente bravo, David Leavitt, autore di quella raccolta di racconti Ballo di famiglia che l’aveva fatto paragonare a J. D. Salinger, ora sia decisamente un autore di secondo piano. Tama Janowitz, che con Schiavi di New York aveva fatto applaudire tutti i critici, ora è — almeno per quanto riguarda la fiction — una ex scrittrice. Mark Leyner, uno che