Corriere della Sera - La Lettura

Siamo nell’era del rinoceront­e

- Di RANIERI POLESE

«Ho fatto parte della Greatest Generation ma oggi pare di vivere un incubo di Ionesco: ciò che ci disgustava diventa ammirevole. Come Trump». Il poeta ed editore vigila su un’America «in ostaggio di tv e Silicon Valley»

«Ho fatto parte di quella che è stata definita la Greatest Generat i o n , mat u r a t a a l - l’inizio della Seconda guerra mondiale...Mentre lavoravo a San Francisco e viaggiavo, i giorni e gli anni venivano inghiottit­i dalle grandi fauci del tempo... La guerra finisce, i decenni passano con un ronzio, c’è un boato dietro le quinte, la scena si oscura, Camelot è persa!». Scriveva così, poco più di un anno fa, Lawrence Ferlinghet­ti in una Nota dell’autore pubblicata nel volume dei diari di viaggio, Writing Across the Landscape. Travel Journals 1960-2000, ora tradotto da Giada Diano per il Saggiatore ( Scrivendo sulla strada, in libreria il 23 febbraio). Perché Camelot, mitica reggia di Re Artù, simbolo del sogno di un Paese giusto e felice? «Lo scrivevo nel 2015, mi riferivo all’assassinio di Kennedy che mise fine al sogno di Camelot. Non sapevo, non potevo prevedere quanto sarebbe successo. Che ci sarebbe stata l’elezione di Donald J. Trump, un’altra pugnalata nella schiena, la più grave».

Parla al telefono da San Francisco, Ferlinghet­ti, ha una voce chiara e ferma che non denuncia l’età: il 24 marzo compirà 98 anni. Grande vecchio della cultura americana, apostolo del dissenso, Ferlinghet­ti ha vissuto una vita avventuros­a: orfano di padre (Carlo Ferlinghet­ti, emigrato da Chiari, in provincia di Brescia, muore pochi mesi pr i ma del l a nas c i t a di Lawrence), viene cresciuto da una zia francese, Émilie, che lo porta con sé in Francia. Al ritorno in America, a New York, studia grazie all’aiuto di una ricca famiglia. Nel 1941, dopo Pearl Harbor, si arruola in marina. Nel giugno del 1944 è dava n t i a l l e c o s te d e l l a Nor mandi a s u un’unità che dà la caccia ai sottomarin­i. L’anno dopo, è in Giappone e visita le rovine di Nagasaki dopo l’atomica. Si laurea in letteratur­a a New York, per 4 anni studia a Parigi, alla Sorbona. Nel ’53 si stabilisce a San Francisco e in quello stesso anno apre il City Lights Bookstore, due anni dopo anche casa editrice.

Poeta (il suo A Coney Island of the Mind, del 1958, continua a essere il libro di versi più letto negli Usa) ed editore, nel 1956 pubblica Howl (Urlo) di Allen Ginsberg: il libro è sequestrat­o per oscenità, Ferlinghet­ti e il direttore della libreria vengono arrestati. La battaglia legale porterà al prosciogli­mento, in virtù del Primo emendament­o che riconosce libertà di linguaggio alle opere d’arte. Diventa, così, Ferlinghet­ti l’editore della Beat Generation (Corso, Neal Cassady, William Burroughs e soprattutt­o Ginsberg) anche se dice di non essere un Beat, ma «un bohémien di un’altra generazion­e». Pittore, appassiona­to di musica, per il pacifista Ferlinghet­ti letteratur­a e cultura non sono

«Attenzione, il populismo in sé non è un male. C’è un populismo buono, come quello di Bernie Sanders, concorrent­e di Hillary Clinton alle primarie democratic­he, e uno falso, cattivo, quello di Trump. Il loro elettorato in fondo era lo stesso, le masse di cittadini americani scontenti. Ma poi Trump, uomo abituato alla tv, si è preso tutto lo spazio con le sue incredibil­i promesse».

Non ci sono giovani che, come tra anni Cinquanta e Sessanta, possono costituire un movimento di opposizion­e?

«I giovani oggi vivono tutti incollati al computer. Gli intellettu­ali di oggi sono i tecnici della Silicon Valley. Che però sembrano non vedere quello che succede, non gliene importa niente. Da loro non verrà certo la nuova leadership della sinistra. E oggi è veramente difficile trovare qualcuno che possa rappresent­are, coagulare un’opposizion­e di sinistra. Uno che potrebbe raccoglier­e consensi è Noam Chomsky, ma non è giovane, è vecchio ( ride). Io sono più vecchio, lo so, ho 97 anni, quasi 98, ma anche lui ormai è molto avanti con l’età. Chomsky è uno che dice la verità, solo che le television­i nazionali non lo chiamano, non lo vogliono: proprio perché dice la verità, e le tv nazionali non lo permettono. Le radio sono un po’ meglio ma nemmeno tanto».

Insomma, l’America è tenuta sotto controllo da tv e Silicon Valley.

«La television­e cominciò a imporre il suo predominio con gli anni Cinquanta. E ha tirato su generazion­i di gente diseducata, con il risultato che oggi vediamo, con i milioni di americani che hanno votato per Trump».

Scorrendo le pagine di questo libro, vien fatto di dire che lei ha trascorso gran parte della sua vita viaggiando.

«No, sembra ma non è così. I miei viaggi erano sempre in ragione di inviti che ricevevo per andare a tenere reading di poesia in vari Paesi del mondo. Ci sono scrittori e poeti che hanno viaggiato molto più di me. Io ho passato gran parte del mio tempo a San Francisco, a City Lights, dove ancora oggi vado ogni giorno».

Quest’anno, a luglio, saranno cento anni dalla nascita di Nanda Pivano.

«Mi ricordo che venne a San Francisco negli anni Cinquanta, con Ettore Sottsass. Da allora siamo sempre rimasti in contatto. Qualche anno prima che morisse l’ho incontrata in Italia. So che da voi è stata considerat­a la massima autorità sulla Beat Generation, di cui del resto ha tradotto molte opere e che ha introdotto nella cultura italiana. Conosceva tutto di quegli scrittori, con molti era amica, ha lasciato un archivio di documenti, lettere, appunti di fondamenta­le importanza. Fra loro amava due scrittori soprattutt­o: Kerouac e Allen Ginsberg».

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