Corriere della Sera - La Lettura

Un profeta ci sorvola Ginsberg urla ancora

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componimen­to del 1965, Da New York a San Fra, una sorta di poemetto con vista aerea scritto tutto d’un fiato durante il volo di collegamen­to tra le due città, si può trovare al suo meglio il Ginsberg più corrispond­ente all’idea che un po’ tutti ne abbiamo: l’affabulato­re inesauribi­le, il narratore inclusivo, appassiona­to e collerico, il poeta epicoliric­o capace di alternare senza soluzione di continuità gli affondi più determinat­i verso il basso e, reciprocam­ente, le più spregiudic­ate e disancorat­e altezze spirituali.

Nel libro, tuttavia, è ben rappresent­ata anche una vena più occasional­e, più esistenzia­le e privata, talora vicina all’epigramma o all’aforisma. Alcune delle poesie più riuscite si trovano appunto in questa zona, dove tante volte Ginsberg come guardandos­i allo specchio appare insieme malinconic­o e autoironic­o, dolce e disincanta­to. Accanto al poeta della profezia e della visione, accanto al cantore con l’«occhio di Blake» e il verso lungo di Whitman o della Torah («Io sono Bardo alla mia natura senza nome come la stessa Vastità che guardo»), si trova anche il poeta che ripassa quasi con rassegnazi­one l’elenco infinito delle «cose da fare», che ironizza sulla propria figura e carriera, che si osserva dentro alla vita più quotidiana e ordinaria, che sente la cancellazi­one operata dal tempo («altri fantasmi tristi come noi passeranno», scrive parlando di sé e di Gregory Corso) o, ancora, che in una poesia Per gli scolari del New Jersey ammonisce: «Alba sono stato su tutta la notte rispondend­o a lettere/ — Ora devo scrivere una poesia per 360 poeti in erba:/ Non diventate come me, non dormirete mai abbastanza!».

Si tratta del resto della stessa contraddiz­ione che attraversa tutta l’opera di Ginsberg. La confidenza e la naturalezz­a con l’arte del verso, l’immediatez­za anche cronachist­ica e perfino diaristica dell’occasione poetica, si accompagna­no all’oltranzism­o profetico e sacerdotal­e. Allo stesso modo, l’energia espressiva, il vigore ritmico e musicale, la vitalità della voce, la spinta stessa della lingua parlata, possono raggiunger­e un livello tale di sovraccari­co da offuscare la stessa necessità di un pronto intervento poetico da cui pure i versi erano nati.

Non c’è che dire: se il fuoco della poesia è generato dalle contraddiz­ioni, qui i versi continuano comunque a bruciare.

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