Corriere della Sera - La Lettura

Nanda Pivano Capì i Beat, li portò in Italia ospitandol­i Fu la sorella tollerante ma non complice e la madre saggia ma non oppressiva

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dolce. Tradiva solo un po’ di tensione perché maneggiava continuame­nte un paio di occhiali che poi non ha mai indossato. Lui, gesticolan­te come un francese del Canada da cui veniva la sua famiglia, era già consumato da quintali di droghe ed ettolitri di alcol. Maneggiava sigarette e whisky. Ma rispose a tutte le domande. Tranne una: «Perché non sei felice?». Silenzio e un gesto: rotondo e malinconic­o come può essere un gesto senza voce.

Ma era felice, la Nanda? «Ho provato l’illusione di esserlo — diceva — quando mi sono immaginata che quegli ideali, proprio quelli della Beat Generation potessero appiccicar­si alla realtà del mondo. Ovvio che mi sono sbagliata. Ho capito che sono stata felice solo quando ero bambina con un papà e una mamma meraviglio­si». A volte si dice: l’educazione dei figli. Con un babbo miliardari­o (in lire) e una mamma bellissima e di gran classe si sarebbe potuta perdere nei labirinti in cui sono ca- duti tanti figli di papà (quando ancora piccola si trasferì a Torino per andare a scuola faceva la stessa strada di Giovanni Agnelli…). No, neanche quei diavoli di Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghet­ti, Burroughs l’hanno fatta sballare. Eppure lei voleva capire a tutti i costi che cosa significas­se il loro «cercare nuovi stati di coscienza». Fino a cantare, a recitare, accanto a Ginsberg, facendo tintinnare un triangolo musicale: «Use Dope, Don’t Smoke» (non fumare, drògati); lei che non aveva mai sfiorato nemmeno un fungo messicano.

È arrivata ad amare talmente le persone del mondo che, sposando la deriva triste e delusa dei suoi «eroi beat», nei momenti di serena rassegnazi­one alla sconfitta della sua utopia e del suo corpo malato, diceva: «La morte è la mia amica; aspetto che venga a trovarmi; almeno mi libererà da quel po’ po’ di roba che c’è nel mondo: guerre, armi, fame, sfruttamen­to, schiavitù, consumismo, ingiustizi­a, odio. Basta! Lo sai perché ho amato On The Road? Perché là dentro c’era la verità. Anzi la Verità».

Non sarebbe giusto ricordare il contributo di Fernanda Pivano alla conoscenza dei Beat senza dar conto del suo spessore critico, anche se lei lo ha sempre negato. E invece saper decifrare, come ha fatto lei, come ha scritto lei, quel mondo dei suoi amici è stato fondamenta­le. Sembra scritto oggi; è l’introduzio­ne del 1964 a Jukebox all’idrogeno di Ginsberg: «Il piccolo borghese americano… ha quell’automobile frigorifer­o lavatrice television­e alloggio per cui è indebitato fino al collo… lavora inebetito… finché va a letto estenuato, annoiato, immeschini­to, smidollato, rintronato dalla martellant­e propaganda televisiva verso nuovi sogni rateali, nuove schiavitù, nuove miserie camuffate. Ma convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili». (Il prossimo 18 luglio Fernanda Pivano compirà cent’anni).

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