Corriere della Sera - La Lettura
Non c’è più posto per il mondo
Discussioni Nel Trecento la città includeva quello che stava fuori dalle sue mura e anche oggi teorici come l’americano Neil Brenner contestano il concetto di urbanizzazione come espansione della popolazione residente nei centri abitati. Tuttavia questo a
Se qualcuno avesse detto nel Trecento che la città includeva quel che era fuori di essa (che oggi chiamiamo campagna o addirittura natura) sarebbe stato compreso senza difficoltà, perché si riferiva a una visione del tutto comune e condivisa: quella dipinta ad esempio negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena, in cui gli effetti del governo si riflettono, nel bene e nel male, con la stessa intensità sia sul centro urbano che sul contado. Perché allora oggi siamo costretti a riscoprire attraverso la teoria di marca americana che quel che non è agglomerato cittadino non è affatto esteriore all’urbano ma è anzi sua componente costitutiva? E perché tale idea costringe a rimettere in discussione tutto quel che ci pare di sapere su Stato, spazio, urbanizzazione?
A questa domanda, spontanea o quasi per un lettore europeo, la raccolta di saggi di Neil Brenner che appunto a tale triade s’intitola non risponde: si limita a indurla. E per farlo costringe anzitutto a sfogliare l’album di famiglia del pensiero critico novecentesco del nostro continente, con particolare riguardo al campo urbanistico. Ritroviamo così le immagini di figure familiari, a partire dai filosofi di Francoforte alle prese con la critica dialettica della modernità capitalista, intenti a costruire un’alternativa agli approcci positivistici e tecnocratici della scienza sociale e della filosofia borghese. Immagini nemmeno tanto sbiadite come ci aspetteremmo.
Riaffiorano così i contorni del primo Manuel Castells, che imputava all’attenzione dedicata a La questione ur
bana (1972) da parte dei governi e dei mezzi d’informazione la volontà di distogliere in tal modo i cittadini dalla pratica sociale, all’epoca delle lotte antimperialiste e operaie. Oppure, per venire a tempi molto più vicini a noi, si affacciano gli arguti profili di Michael Hardt e Antonio Negri, che assegnano alle metropoli contemporanee un ruolo di mobilitazione socio-politica analogo a quello delle fabbriche durante l’epoca industriale.
È però nei confronti del pensiero di Henri Lefebvre che Brenner è maggiormente debitore, né potrebbe essere altrimenti, dato il potente influsso esercitato su tutta la recente radicale riflessione urbanistica anglosassone dalla tardiva traduzione inglese (1991) de La produ
zione dello spazio (1974), forse l’opera più nota del sociologo francese. Ed è da Lefebvre che Brenner riprende l’idea che lo spazio sia, tra l’altro, un prodotto sociale. È davvero così? O almeno: è ancora così? O non è piuttosto stato fin qui vero il contrario, che la società sia stata prodotta dal progressivo avvento dello spazio sulla faccia della Terra? (E si badi che è lo stesso Lefebvre a porre l’accento sul carattere produttivo dello spazio stesso).
Torniamo allora alla domanda iniziale. La risposta dipende da un’inversione che né Lefebvre né Brenner concepiscono, e che invece è risolutiva: invece di concentrarsi sulla produzione dello spazio da parte della società bisogna, al contrario, esaminare la produzione della società da parte dello spazio. E per far questo occorre muovere da quell’astrazione concreta, cioè storicamente determinata (per riprendere il linguaggio marxiano caro a Brenner), per cui l’esistenza dello spazio implica l’imposizione alla faccia della Terra di una misura metrica lineare standard svincolata da ogni rapporto con il contesto, vale a dire con il luogo, cui essa viene applicata. In altre parole: lo spazio comporta la rappresentazione cartografica, la mappa, che è il suo produttore e insieme il suo veicolo, il suo agente.
Brenner ha certo ragione, ad esempio, nella critica al
concetto di urbanizzazione inteso come espansione della popolazione residente in città in rapporto alla totalità della popolazione nazionale, secondo la definizione di Kingsley Davis ancora oggi istituzionalizzata nei sistemi di raccolta dati dell’Onu e di altre organizzazioni globali. Ma al tempo di Davis, cioè a metà Novecento, i giochi al riguardo si erano conclusi da un pezzo, almeno da quando un secolo e mezzo prima un signore chiamato Denis Diderot aveva deciso, nella sua Encyclopédie, di ridurre la città stessa al semplice incasato, all’insieme del volume costruito, al solo complesso di mura, strade ed edifici. (Vale qui appena accennare al fatto che prima di tale operazione l’idea di città non aveva nulla di edilizio o topografico, ma significava quel che di più immateriale si possa concepire: una maniera trovata dagli uomini per vivere un po’ meglio, come anche il Tasso la definiva in un suo dialogo).
Fu proprio questa preliminare ma perentoria, illuministica reificazione del fatto urbano, inconcepibile senza la sostituzione della città con il suo simulacro cartografico, a farci dimenticare che cosa fosse stata fino ad allora quest’ultima, la sua natura appunto dinamica, inclusiva, relazionale, funzionalmente e strutturalmente aperta verso l’esterno a dispetto delle sue stesse mura. E fu proprio l’avvento della versione cartografica del dispositivo cittadino a permettere la successiva riduzione a elementari dati statistici del complesso processo di diffusione urbana, onnivoro e tutt’altro che statico. Un semplice esempio di come lo spazio (quello metrico di Euclide e Tolomeo) sia stato in grado di produrre il complesso sociale, se con tale termine s’intende tra l’altro il portatore di modelli relativi alla natura e al funzionamento del mondo in grado di influenzare ogni pratica e ogni rapporto, sia interno all’umanità che tra questa e il suo ambiente.
Ma a tale spazio, quello originario e da cui tutte le altre forme come sue metafore discendono, non prodotto ma produttore del capitalismo, nel testo di Brenner non viene dedicata nessuna specifica attenzione. E paradossalmente tale limite appare più evidente proprio dove tale atteggiamento risulta, a insaputa dello stesso autore, corretto. Nella prima parte il testo tratta del rescaling urbano, cioè dell’interpretazione della più recente ondata di ristrutturazione geoeconomica planetaria in termini di incessante riarticolazione dell’intreccio tra scala urbana, regionale, nazionale e globale da parte del capitale alla continua ricerca di nuove occasioni di plusvalore.
Come certificazione della natura spaziale dei rapporti di distanza lineari (cioè orizzontali) la scala apparve sulle mappe a metà Cinquecento, e da allora in poi essa ha progressivamente colonizzato l’intera produzione cartografica. Nella proposta di Brenner la scala diventa però altro, riflette la strutturazione verticale delle relazioni sociali, corrisponde a una dimensione socialmente costruita, cioè a un livello discreto all’interno di una gerarchia.
Che senso ha allora, se non fuorviante, continuare a parlare di scale, cioè di spazio? Il punto di svolta che dà origine alla globalizzazione, e che dunque riassetta tutte le capacità in campo, consiste nell’entrata in funzione della rete decentrata di reti elettroniche, private oltre che pubbliche, che chiamiamo internet: dunque di un agente che è rivoluzionario proprio perché fonda il suo regime su funzioni del tutto opposte rispetto a quelle scalari cioè spaziali, anzi eversive rispetto a esse. La crisi dello spazio è la crisi dello Stato, che storicamente proprio su tale modello si è costruito. E la loro crisi implica quella della scala, che di tale costruzione ha rappresentato il codice.
Spiegava Ulrich Beck che la comprensione dei paradossi politici e sociali dell’economia transnazionale, così come delle dinamiche transurbane a quest’ultima connesse, richiede una capriola, un salto di logica, l’invenzione del nuovo. La globalizzazione significa prima d’altro la fine dello spazio, ed è con tale inedita realtà che oggi bisogna senza indugi confrontarsi. Come scriveva Wittgenstein alla fine del Tractatus: colui che comprende deve «gettar via la scala dopo che v’è salito». Il che evidentemente vale anche per il funzionamento del mondo.