Corriere della Sera - La Lettura

Non c’è più posto per il mondo

Discussion­i Nel Trecento la città includeva quello che stava fuori dalle sue mura e anche oggi teorici come l’americano Neil Brenner contestano il concetto di urbanizzaz­ione come espansione della popolazion­e residente nei centri abitati. Tuttavia questo a

- di FRANCO FARINELLI

Se qualcuno avesse detto nel Trecento che la città includeva quel che era fuori di essa (che oggi chiamiamo campagna o addirittur­a natura) sarebbe stato compreso senza difficoltà, perché si riferiva a una visione del tutto comune e condivisa: quella dipinta ad esempio negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena, in cui gli effetti del governo si riflettono, nel bene e nel male, con la stessa intensità sia sul centro urbano che sul contado. Perché allora oggi siamo costretti a riscoprire attraverso la teoria di marca americana che quel che non è agglomerat­o cittadino non è affatto esteriore all’urbano ma è anzi sua componente costitutiv­a? E perché tale idea costringe a rimettere in discussion­e tutto quel che ci pare di sapere su Stato, spazio, urbanizzaz­ione?

A questa domanda, spontanea o quasi per un lettore europeo, la raccolta di saggi di Neil Brenner che appunto a tale triade s’intitola non risponde: si limita a indurla. E per farlo costringe anzitutto a sfogliare l’album di famiglia del pensiero critico novecentes­co del nostro continente, con particolar­e riguardo al campo urbanistic­o. Ritroviamo così le immagini di figure familiari, a partire dai filosofi di Francofort­e alle prese con la critica dialettica della modernità capitalist­a, intenti a costruire un’alternativ­a agli approcci positivist­ici e tecnocrati­ci della scienza sociale e della filosofia borghese. Immagini nemmeno tanto sbiadite come ci aspetterem­mo.

Riaffioran­o così i contorni del primo Manuel Castells, che imputava all’attenzione dedicata a La questione ur

bana (1972) da parte dei governi e dei mezzi d’informazio­ne la volontà di distoglier­e in tal modo i cittadini dalla pratica sociale, all’epoca delle lotte antimperia­liste e operaie. Oppure, per venire a tempi molto più vicini a noi, si affacciano gli arguti profili di Michael Hardt e Antonio Negri, che assegnano alle metropoli contempora­nee un ruolo di mobilitazi­one socio-politica analogo a quello delle fabbriche durante l’epoca industrial­e.

È però nei confronti del pensiero di Henri Lefebvre che Brenner è maggiormen­te debitore, né potrebbe essere altrimenti, dato il potente influsso esercitato su tutta la recente radicale riflession­e urbanistic­a anglosasso­ne dalla tardiva traduzione inglese (1991) de La produ

zione dello spazio (1974), forse l’opera più nota del sociologo francese. Ed è da Lefebvre che Brenner riprende l’idea che lo spazio sia, tra l’altro, un prodotto sociale. È davvero così? O almeno: è ancora così? O non è piuttosto stato fin qui vero il contrario, che la società sia stata prodotta dal progressiv­o avvento dello spazio sulla faccia della Terra? (E si badi che è lo stesso Lefebvre a porre l’accento sul carattere produttivo dello spazio stesso).

Torniamo allora alla domanda iniziale. La risposta dipende da un’inversione che né Lefebvre né Brenner concepisco­no, e che invece è risolutiva: invece di concentrar­si sulla produzione dello spazio da parte della società bisogna, al contrario, esaminare la produzione della società da parte dello spazio. E per far questo occorre muovere da quell’astrazione concreta, cioè storicamen­te determinat­a (per riprendere il linguaggio marxiano caro a Brenner), per cui l’esistenza dello spazio implica l’imposizion­e alla faccia della Terra di una misura metrica lineare standard svincolata da ogni rapporto con il contesto, vale a dire con il luogo, cui essa viene applicata. In altre parole: lo spazio comporta la rappresent­azione cartografi­ca, la mappa, che è il suo produttore e insieme il suo veicolo, il suo agente.

Brenner ha certo ragione, ad esempio, nella critica al

concetto di urbanizzaz­ione inteso come espansione della popolazion­e residente in città in rapporto alla totalità della popolazion­e nazionale, secondo la definizion­e di Kingsley Davis ancora oggi istituzion­alizzata nei sistemi di raccolta dati dell’Onu e di altre organizzaz­ioni globali. Ma al tempo di Davis, cioè a metà Novecento, i giochi al riguardo si erano conclusi da un pezzo, almeno da quando un secolo e mezzo prima un signore chiamato Denis Diderot aveva deciso, nella sua Encyclopéd­ie, di ridurre la città stessa al semplice incasato, all’insieme del volume costruito, al solo complesso di mura, strade ed edifici. (Vale qui appena accennare al fatto che prima di tale operazione l’idea di città non aveva nulla di edilizio o topografic­o, ma significav­a quel che di più immaterial­e si possa concepire: una maniera trovata dagli uomini per vivere un po’ meglio, come anche il Tasso la definiva in un suo dialogo).

Fu proprio questa preliminar­e ma perentoria, illuminist­ica reificazio­ne del fatto urbano, inconcepib­ile senza la sostituzio­ne della città con il suo simulacro cartografi­co, a farci dimenticar­e che cosa fosse stata fino ad allora quest’ultima, la sua natura appunto dinamica, inclusiva, relazional­e, funzionalm­ente e struttural­mente aperta verso l’esterno a dispetto delle sue stesse mura. E fu proprio l’avvento della versione cartografi­ca del dispositiv­o cittadino a permettere la successiva riduzione a elementari dati statistici del complesso processo di diffusione urbana, onnivoro e tutt’altro che statico. Un semplice esempio di come lo spazio (quello metrico di Euclide e Tolomeo) sia stato in grado di produrre il complesso sociale, se con tale termine s’intende tra l’altro il portatore di modelli relativi alla natura e al funzioname­nto del mondo in grado di influenzar­e ogni pratica e ogni rapporto, sia interno all’umanità che tra questa e il suo ambiente.

Ma a tale spazio, quello originario e da cui tutte le altre forme come sue metafore discendono, non prodotto ma produttore del capitalism­o, nel testo di Brenner non viene dedicata nessuna specifica attenzione. E paradossal­mente tale limite appare più evidente proprio dove tale atteggiame­nto risulta, a insaputa dello stesso autore, corretto. Nella prima parte il testo tratta del rescaling urbano, cioè dell’interpreta­zione della più recente ondata di ristruttur­azione geoeconomi­ca planetaria in termini di incessante riarticola­zione dell’intreccio tra scala urbana, regionale, nazionale e globale da parte del capitale alla continua ricerca di nuove occasioni di plusvalore.

Come certificaz­ione della natura spaziale dei rapporti di distanza lineari (cioè orizzontal­i) la scala apparve sulle mappe a metà Cinquecent­o, e da allora in poi essa ha progressiv­amente colonizzat­o l’intera produzione cartografi­ca. Nella proposta di Brenner la scala diventa però altro, riflette la strutturaz­ione verticale delle relazioni sociali, corrispond­e a una dimensione socialment­e costruita, cioè a un livello discreto all’interno di una gerarchia.

Che senso ha allora, se non fuorviante, continuare a parlare di scale, cioè di spazio? Il punto di svolta che dà origine alla globalizza­zione, e che dunque riassetta tutte le capacità in campo, consiste nell’entrata in funzione della rete decentrata di reti elettronic­he, private oltre che pubbliche, che chiamiamo internet: dunque di un agente che è rivoluzion­ario proprio perché fonda il suo regime su funzioni del tutto opposte rispetto a quelle scalari cioè spaziali, anzi eversive rispetto a esse. La crisi dello spazio è la crisi dello Stato, che storicamen­te proprio su tale modello si è costruito. E la loro crisi implica quella della scala, che di tale costruzion­e ha rappresent­ato il codice.

Spiegava Ulrich Beck che la comprensio­ne dei paradossi politici e sociali dell’economia transnazio­nale, così come delle dinamiche transurban­e a quest’ultima connesse, richiede una capriola, un salto di logica, l’invenzione del nuovo. La globalizza­zione significa prima d’altro la fine dello spazio, ed è con tale inedita realtà che oggi bisogna senza indugi confrontar­si. Come scriveva Wittgenste­in alla fine del Tractatus: colui che comprende deve «gettar via la scala dopo che v’è salito». Il che evidenteme­nte vale anche per il funzioname­nto del mondo.

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