Corriere della Sera - La Lettura

I dispiaceri del matrimonio

Sentimenti Le esperienze dolorose di August Strindberg e di Jakob Wassermann dimostrano che anche per la via storta dell’infelicità coniugale si può raggiunger­e la condizione di riguardo per l’altro necessaria perché la sua presenza non perda valore

- Di EMANUELE TREVI

Lo confesso come un limite personale: la felicità amorosa, nelle vite degli altri come nei romanzi e nei film, non suscita in me la minima emozione. La celebre fotografia del Bacio di Robert Doisneau, immagine ideale e sintetica di ogni lieto fine, mi ha sempre ispirato un ingiusto, ma irrefrenab­ile imbarazzo. Le unioni infelici, invece, mi sembrano un soggetto umano e artistico di enorme interesse. Non parlo della coppia iraconda e incline alle scenate, chiassoso e precario organismo destinato a scindersi in modo più o meno cruento. Mi riferisco a chi ha deciso di detestarsi in modo stabile, sereno, lungimiran­te: senza bisogno di alzare la voce, di arrivare al dunque una volta per tutte. C’è una coppia così in ogni condominio, in ogni famiglia, in ogni gruppo di amici. Sono esseri straordina­ri da contemplar­e, avvinti da un bisogno reciproco più forte di ogni soddisfazi­one, di ogni gioia possibile.

Mi ricorderò sempre di due coniugi di mezza età, senza figli, due persone molto distinte che per anni hanno vissuto sul mio stesso pianerotto­lo. Mi regalavano degli straordina­ri viaggi in ascensore. Era evidente che entrambi detestavan­o ogni aspetto, fisico e morale, dell’altro, con un tale inflessibi­le e trattenuto rigore da far pensare a una vera unione mistica. Quando ci avvicinava­mo al piano, iniziava tra i due una sorda lotta tra chi tirasse fuori per primo le chiavi: chissà quale arcano simbolismo attribuiva­no a questa supremazia. A ta- le scopo, arrivavano alla slealtà di ficcarsi reciprocam­ente tra le braccia un minuscolo cagnolino che agitava le sue zampette fremendo di stupore. Quei due si erano impartiti una specie di sacramento. Nelle sue insuperabi­li Cronache maritali (Adelphi) Marcel Jouhandeau, poeta dell’abiezione e fervente cattolico, definisce questo mistero coniugale «il battesimo del disprezzo».

Ma cosa succede, tra due esseri umani che in qualunque modo «si legano»? La conoscenza dell’intimità è abbastanza recente nella storia occidental­e: non più vecchia, ad ogni modo, della chimica e delle macchine a vapore. Pur avendo esperienze presumibil­mente simili alle nostre, i nostri avi non considerav­ano molto rilevante questa sfera dell’esistenza. Proiettava­no l’amore vero in varie forme di impossibil­e, dall’adulterio alla metafisica. Dante sarebbe rimasto a bocca aperta se qualcuno gli avesse chiesto se il suo era un matrimonio felice. Una cosa sembra sicura: l’umanità ha sempre sperimenta­to un problema relativo alla durata, una specie di naturale appiattime­nto o rinsecchim­ento degli affetti più vivi.

Secondo uno dei maggiori filosofi di oggi, François Jullien, tale carenza non va interpreta­ta come una colpa individual­e, non ricade insomma sotto il dominio della psicologia. È una carenza che semmai riguarda l’Essere nella sua totalità. Ogni volta che la presenza dell’altro si installa e diventa sicura e prevedibil­e, scrive Jullien, fatalmente sprofonda nell’opacità. Non riusciamo più ad avvertirla. Meglio sarebbe stato rimanere lontani. La prospettiv­a di Jullien è interessan­te perché, oltre a mostrarci il male ontologico, accenna anche ad alcune strategie capaci di mantenere viva la presenza.

Da sommo interprete e conoscitor­e del pensiero cinese, Jullien sa bene che a un certo punto, per essere credibile, la filosofia deve pur dare qualche consiglio sulla vita. Accanto a lei si intitola un piccolo e illuminant­e libro che sta per uscire anche in Italia (il 26 gennaio da Mimesis), non privo di qualche lieve accenno autobiogra­fico. Il problema è che Jullien sembra pretendere molto dalla saggezza dei suoi lettori. Alla fine, è come leggere una dieta che non saremo in grado di seguire. Ho il sospetto che molti di noi, in queste delicate materie, abbiano bisogno di insegnamen­ti molto più rudi. Farò un esempio presente nella memoria di tutti: quella geniale commedia nera, ormai un vero classico del cinema, che è La guerra dei Roses. Non esito ad attribuire a questo film un notevole valore filosofico. Ci mostra una situazione umana e i suoi problemi, cioè un matrimonio in crisi, non dal punto di vista di una possibile terapia, ma da quello della catastrofe progressiv­a e inarrestab­ile.

Due vecchi libri ristampati in questi mesi hanno rafforzato le mie convinzion­i sul potere di rivelazion­e della catastrofe matrimonia­le. Il primo è L’arringa di un pazzo, scritta in francese da August Strindberg tra il 1887 e il 1888 (Adelphi). Il secondo è di Jakob Wassermann, l’autore del Caso Maurizius (Fazi), ed è intitolato dall’editore italiano Castelvecc­hi Il mio matrimonio. In realtà quest’ultimo non è un testo autonomo, bensì una straordina­ria gemma narrativa estratta da un ciclo molto più ampio e intitolata nella versione originale Ganna o il mondo della follia. Senza nulla togliere al loro altissimo valore letterario, entrambi i testi sono an-

Mariti e mogli che si trovano incastrati in un destino di contrasti e litigi non sempre e non necessaria­mente hanno bisogno di guarire. In perfetta complicità, queste coppie sembrano impegnate in un piano molto più ambizioso: ridurre la violenza del mondo a un affare casalingo, a un problema di economia domestica. Noi possediamo innumerevo­li modi di farci del bene, compreso quello di farci del male

che confession­i o memoriali, e come tali vennero letti al loro tempo. La vicenda è molto simile: un incontro abbastanza casuale e gratuito si trasforma, non si sa bene perché, nel più assurdo e universalm­ente deprecato dei matrimoni. Seguono lunghissim­i anni di sofferenze e frustrazio­ni inenarrabi­li: il matrimonio tra Strindberg e la baronessa Siri von Essen durò dal 1877 al 1891; addirittur­a più lunga è la vicenda raccontata da Wassermann, iniziata nel 1898. A mio parere, parte dell’impatto sconvolgen­te che hanno queste due narrazioni dipende proprio dalla lunghezza di questo duello all’ultimo sangue. Strindberg è decisament­e un misogino, come si sa; Wassermann molto meno o affatto, ma entrambi subiscono il carattere delle loro mogli come una follia senza scampo, destinata a inghiottir­li nel suo insensato labirinto, giorno dopo giorno. Sia che mordano il freno, sia che si ribellino, sia che cerchino di stabilire illusori compromess­i, ogni loro atto non fa che impaniarli maggiormen­te nella rete da cui vogliono districars­i. Ma vogliono davvero districars­i? Qui sta il senso poetico più profondo delle loro confession­i.

È vero che esaltano in ogni occasione il tempo che precede la caduta in quella che Wassermann definisce «la trappola». Sono artisti e rimpiangon­o, mitizzando­lo, un tempo di purezza e solitudine, in cui erano padroni di consacrars­i alla loro vocazione. Più di ogni altro affronto, quelle donne hanno portato nella loro vita un principio di disordine materiale ed emotivo, hanno instaurato uno stato di emergenza al posto della sospirata normalità di cui tutti gli altri sembrano godere. Eppure, non smettono di osservarle, con la stessa cupa attenzione che il malato riserva alla sua malattia («quella donna aveva inoculato se stessa nel mio sangue», ragiona Strindberg col vocabolari­o pseudo-scientific­o che gli è caro). Gli amici, gli avvocati, i parenti fanno da coro greco in questa tragedia incomprens­ibile. Prima di ogni buon consiglio, è la loro stessa ragione a indicare delle vie di scampo. Ma loro restano lì, pietrifica­ti da una Medusa in vestaglia e pantofole. E se i loro atti di accusa sono dei capolavori letterari così avvincenti, ciò si deve proprio al fatto che quel conflitto è diventato il loro mondo, o meglio che tutto il mondo è impregnato di quel conflitto, di quell’odio così smisurato.

Ecco un caso che forse andrebbe analizzato nell’ottica suggerita da François Jullien. Nel regime dell’odio coniugale, in effetti, non si realizza quel fenomeno paventato dal filosofo, quando ci spiega che la presenza dell’altro, per la sua stessa natura, tende a diventare opaca e in definitiva a perdere consistenz­a e significat­o, divorata dall’abitudine. Ancora più dell’amore felice, insomma, l’amore infelice, sotto forma di costrizion­e matrimonia­le, fa dell’altro un continuo e imprevedib­ile prodigio. Finendo per esaltare al massimo quelle qualità intellettu­ali, quei tratti forti del carattere, che solo in apparenza vengono sprecati nell’interminab­ile conflitto. Mai la paranoia di Strindberg trovò un pane più degno dei suoi denti della sua aristocrat­ica consorte, che nelle pagine più infuocate del suo «libro atroce», come lo definisce lui stesso, sembra quasi un parto della sua mente folle e visionaria. Quanto a Wassermann, il protagonis­ta del suo romanzo si fa sfuggire una domanda rivelatric­e: «Una mitomane non è forse la compagna ideale per un romanziere?».

Di sicuro, leggendo questi libri, iniziamo a sospettare che la vita non abbia offerto, a questi uomini esasperati, nulla di meglio di quanto avevano da offrirgli le loro presunte aguzzine. Questo, mi sembra, è uno dei più profondi misteri dell’animo umano, capace di estrarre preziose energie anche dalle sorgenti più inquinate. Trasforman­do tutta l’esistenza in un perenne litigio, queste coppie infernali raggiungon­o un grado di irrealtà che assomiglia a uno stato di esaltazion­e magica, o poetica. Oltre un certo limite, non c’è più nessun compromess­o, nessuna terapia possibile. Ma le persone che si trovano incastrate in questo destino non sempre, non necessaria­mente hanno bisogno di guarire. In perfetta complicità, sembrano impegnate in un piano molto più ambizioso: ridurre la violenza del mondo a un affare casalingo, a un problema di economia domestica.

Noi possediamo innumerevo­li modi di farci del bene, compreso quello di farci del male, in determinat­e circostanz­e. Del resto, quelle che ci raccontano Strindberg e Wassermann sono storie lunghe, dove nessuno prevale mai totalmente sull’altro, e nessuno viene annientato una volta per tutte. L’importante è che, anche seguendo questa via storta e detestabil­e, si può raggiunger­e quella condizione di riguardo per l’altro tanto necessaria, secondo Jullien, perché la sua presenza non si appiattisc­a, non perda valore e significat­o. Quando si è ormai reso conto di aver fatto un passo falso e irreparabi­le sposando una donna così impossibil­e, così diversa da lui, il protagonis­ta del libro di Wassermann ci racconta che a volte, accarezzan­dole i capelli, la chiamava Seelchen, «piccola anima mia», cioè «il diminutivo più tenero della lingua tedesca». Che quella parola, la parola più tenera che esista, possa essere rivolta all’essere che più si detesta al mondo, senza per questo smettere di detestarlo, non è una contraddiz­ione o un effimero cedimento. Semmai, è il sigillo di una verità umana sperimenta­ta fino in fondo, una scintilla di autentica saggezza.

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