Corriere della Sera - La Lettura
La politica e gli affari Le ambizioni di Zuckerberg
È la voce più insistente delle ultime settimane. Lui ha smentito ma molti credono che sia possibile. O un modo per proteggersi dai guai (e da Trump)
L’impegno del 2017 di visitare tutti gli Stati degli Usa ha rilanciato le indiscrezioni su una candidatura alla Casa Bianca. Potrebbe finanziarsi da solo la campagna e puntare sulla macchina di propaganda migliore del mondo (Facebook), ma la svolta «politica» sembrerebbe dipendere più dalla ricerca di una strategia per conservare utenti e potere economico
Anche se l’ha smentito ufficialmente (e in politica spesso una smentita equivale a una conferma rimandata), l’interrogativo resta: Mark Zuckerberg, il numero uno di Facebook, si sta davvero allenando per la presidenza degli Stati Uniti? L’elezione sarebbe quella del 2024, quando Mark compirà quarant’anni, due in meno del presidente Theodore Roosevelt e tre in meno del presidente John F. Kennedy. Gli indizi, parecchi, sono noti, a cominciare dal famigerato proposito per il 2017, che lo impegna a visitare entro la fine dell’anno tutti gli Stati americani. È partito dal Texas, dove si è fatto immortalare, da un ex fotografo della Casa Bianca, seduto al tavolo con la polizia locale, mentre pianta semi in un giardino della comunità di Oak Cliff, circondato dalle mamme, in ascolto dei ministri del culto locali, e addirittura a un rodeo vestito con abiti ufficiali («il mio primo rodeo», ha puntualizzato sulla sua pagina Facebook).
A destare sospetti legittimi c’è anche la recente riorganizzazione dell’assetto azionario dell’azienda, che gli consente di mantenere il controllo di Facebook anche in caso di vendita delle azioni e — si legge in un documento inviato alla Sec, l’ente federale che vigila su Wall Street — di eventuali incarichi politici. Dalla Casa Bianca, poi, arrivano i nuovi assunti a peso d’oro di Menlo Park: David Plouffe, manager della campagna di Obama, ed Erskine Bowles, capo dello staff di Bill Clinton. Non è finita: ci sono le dichiarazioni («Sono stato cresciuto da ebreo, poi ho avuto un periodo in cui mi sono fatto tante domande, adesso credo che la religione sia molto importante»); la squadra di ghostwriter che si occupa dei suoi post e commenti pubblici; la passione per i videogiochi, come Civilization, dove l’obiettivo è costruire e comandare, e le smanie da imperatore note in Silicon Valley. Un dirigente di PayPal, che deve restare anonimo, lo descrive così alla «Lettura»: «Mark è un miliardario che crede nella meritocrazia e pensa di essere la persona più intelligente della Terra: perché non potrebbe essere presidente?».
Già, perché? A furia di sentire la domanda anche Sarah Lacy, giornalista molto ascoltata nel mondo della tecnologia (il suo «Pandodaily» ha ricevuto i finanziamenti di Marc Andreessen e di Peter Thiel), ha finito con il crederci: «Quando si parla di presidenza degli Stati Uniti solo uno stupido può dire “questo è impossibile”», dice a «la Lettura». «Personalmente ho molto rispetto per Mark: è un businessman di successo che potrebbe finanziare da solo la sua campagna elettorale e controllare la più grande macchina di propaganda al mondo: certo che potrebbe correre per la presidenza! A maggior ragione dopo che Trump ha stravolto tutto quello che possiamo aspettarci da un politico in materia di conflitto di interessi». Al di là delle ambizioni politiche diZuckerb erg, emerge il sospetto che in America ci siano già tutte le premesse per avere come presidente il sesto uomo più ricco del mondo, oggi a capo di un Paese virtuale grande quanto la Cina :« Ciò che funziona con l’ elettore americano—dice la sociologa SaskiaSassen, autrice di Espulsioni( il Mulino )— è essere contemporaneamente molto potente e rifiutato dall’ élite dei ricchi“antichi” dai modi eleganti. È quello che è successo con Trump e anche con Putin: ricchi sì, ma outsider».
Non sarebbero però solo le infradito, la t-shirt alle occasioni ufficiali e l’aria da eterno membro di una confraternita studentesca a favorire un’eventuale discesa in campo del fondatore di Facebook: «Zuckerberg — spiega Frank Pasquale, docente di legge all’Università del Maryland — potrebbe trarre vantaggio da due tendenze della politica americana. Ci sono moltissime persone a destra, contrarie per ideologia a qualsiasi figura che arrivi dal governo, che preferiscono senza dubbio essere guidate da un uomo d’affari senza esperienza politica. E il Partito democratico è alla ricerca disperata di un “milionario buono” che possa bilanciare quello “cattivo” di destra». Ancora una volta, ecco palesarsi il parallelo con il neopresidente americano: «Entrambi rappresentano un taglio radicale rispetto al passato. Il loro regno segna un passo in avanti verso il completo assorbimento del l o St a to i n un’a g e nda per s onal e . Quando la tua campagna viene sostenuta da molteplici finanziatori, devi tenere conto di un significativo numero di interessi diversi».
Tuttavia, secondo l’autore di Black Box Society (Harvard University Press), più che la Casa Bianca, a Mark Zuckerberg
Saskia Sassen «Ciò che funziona con l’elettore americano è essere insieme potente e outsider. È quello che è successo con Trump» Fonte anonima «È un miliardario che crede nella meritocrazia e pensa di essere l’uomo più intelligente della Terra: perché non potrebbe essere presidente?»
interessa «essere l’unico regolatore di se stesso, allontanare qualsiasi interferenza governativa dall’espansione della sua azienda».
La svolta «politica» del trentaduenne imprenditore americano sarebbe dunque finalizzata a proteggere la crescita di Facebook da eventuali riverberi etici dei cittadini (preoccupati per la loro privacy) e, ancora di più, dagli attacchi protezionisti dell’amministrazione Trump.
Tra i ceo della Silicon Valley, Zuckerberg è quello che si è speso di più durante le amministrazioni Obama per spingere verso una riforma dell’immigrazione. Nel 2013 ha lanciato l’iniziativa (e il portale) Fwd.us per mobilitare la comunità tech a chiedere con forza norme che permettessero alle aziende di assumere più facilmente immigrati. Nel progetto era riuscito a coinvolgere più o meno tutti, tanto che in molti a Washington erano convinti che sarebbe nata una nuova potentissima lobby tecnologica, capace di indirizzare la politica degli Stati Uniti.
Di certo, le politiche sull’immigrazione annunciate, e in parte già messe in campo, da Trump fanno tramontare non solo il sogno di una riforma di «liberalizzazione» per gli immigrati, ma anche l’idea di una lobby di matrice democratica guidata da tecnocrati.
L’immigrazione non è l’unico settore dove gli intenti protezionistici di Trump si vanno a scontrare con le mire espansionistiche di Mark Zuckerberg. Ci sono le tasse, per esempio, considerevole fetta della ricchezza dei colossi tech, che secondo il neopresidente andranno versate tutte nelle casse degli Stati Uniti, così come la produzione dovrà essere spostata il più possibile all’interno dei confini nazionali. Per limitare i danni, molti capi del settore tecnologico hanno avviato discussioni «bilaterali» con il presidente: Tim Cook, numero uno di Apple, ha già portato a casa la promessa pubblica di incentivi e di un poderoso taglio delle tasse per spostare la produzione hardware dalla Cina all’America, mentre Elon Musk, il visionario fondatore di SpaceX e Tesla, e il ceo di Uber Travis Kalanick sono entrati (grazie soprattutto alla mediazione di Peter Thiel di PayPal) a far parte del «consiglio economico» del neopresidente.
Da questo punto di vista, Zuckerberg continua a essere il più refrattario al dialogo tra i magnati della Silicon Valley, una distanza che è stata marcata dalla mancata partecipazione al famoso summit di dicembre, che ha visto tutti i top manager hi-tech (escluso Jack Dorsey di Twitter) seduti intorno a un tavolo con il presidente eletto nella Trump Tower. Al posto di Mark, c’era la numero due dell’azienda californiana, Sheryl Sandberg, la quale aveva ufficialmente espresso il suo supporto per Hillary Clinton (si vociferava di un possibile incarico governativo al dipartimento del Tesoro).
C’è anche una questione di immagine. La reputazione di Facebook è stata danneggiata quando si è scoperto — con la campagna elettorale — che le notizie false non solo trovavano terreno fertile sul sito, ma erano anche quelle più lette.
Da un lato, dunque, Zuckerberg deve trovare una strategia di sopravvivenza economica all’era Trump per restare il colosso economico di sempre, ma, dall’altro, deve coltivare con molta attenzione la fiducia dei suoi utenti, soprattutto fuori dalla bolla della Silicon Valley: «Il fatto che Mark voglia visitare i cinquanta Stati — ha detto a “la Lettura” Alec Ross, consigliere speciale per l’innovazione di Hillary Clinton e autore del libro Il nostro
futuro (Feltrinelli) — è un modo per conoscere meglio il suo Paese. Serve a capire tutta l’America e questa conoscenza aiuterà di certo Facebook».