Corriere della Sera - La Lettura

Sul barcone virtuale, per sentirsi profughi

- Di EMILIO COZZI

We Wait, cioè noi aspettiamo. Aspettiamo. Tanto, fo r s e t ut to . Pe r c hé We Wait , sviluppata dalla Bbc in collaboraz­ione con Aardman Digital e da poche settimane disponibil­e online, è un’esperienza virtuale che riproduce in pochi minuti il viaggio via mare di una famiglia di profughi siriani, dalla Turchia alle coste della Grecia.

È stata realizzata, spiega l’emittente britannica, per «far sperimenta­re le paure e le speranze» di chi si trova ad affrontare una traversata così pericolosa. E raggiunge lo scopo come solo una narrazione immersiva potrebbe: costringen­do chi guarda a stare dentro, come attori di un film, su una spiaggia prima e su un gommone dopo, immobili, salvo che per la possibilit­à di girare la testa e lo sguardo di 360 gradi.

Per quanto ogni cosa sia generata da un software, la paura assomiglia a quella vera. La si percepisce tutto il tempo, per gli schizzi d’acqua che colpiscono in faccia costringen­do a guardare altrove, dove il mare, grosso, potrebbe inghiottir­ci in ogni momento. O per quella torcia elettrica che qualcuno continua a puntare negli occhi, perché alle nostre spalle un gommone come quello su cui viaggiamo noi si è rovesciato.

Basta indossare un visore per la realtà virtuale come Oculus Rift o Gear Vr ( We Wait è disponibil­e gratuitame­nte nello store digitale dei diversi brand) per finire nella storia e percepire la nostra presenza. Quasi in senso fisico. Come quando, in mare aperto, il gommone è affiancato da un pattugliat­ore della Guardia costiera greca: guardandol­o se ne scorgono le dimensioni, la stabile presenza in acqua, l’armamento. La sua sagoma scura sovrasta la barchetta gonfiabile su cui navighiamo. Ed è vicina. Tanto da poterla toccare.

Poco importa che la grafica sia grossolana (come nei videogioch­i d’un tempo, dalle curve irrealisti­camente spigolose), i volti per così dire sintetici e le loro voci — in un inglese dal forte accento arabo — troppo stridule: gli spruzzi d’acqua di forma cubica e l’imponenza della nave che ci ha appena abbordati bastano per disorienta­re. Per innescare una reazione che è, anzitutto e volutament­e, emotiva, perché lo scopo del progetto è proprio «far provare speranze e paure».

Elaborata sulla base di interviste a decine di profughi da Bbc Connected Studio — la sezione dell’emittente dedicata all’innovazion­e digitale e online — la stor i a di We Wait inizia di notte su una spiaggia. Un modo per ribadire che — benché quanto ci circonda sia stilizzato con tratti da cartoon — il dramma raccontato è reale. È una storia di donne e uomini vicini a noi. Un viaggio. E noi possiamo non solo conoscerne il resoconto, ma coglierne i rumori, guardarne in faccia i protagonis­ti, vederli muoversi e vivere i silenzi fra un accadiment­o e l’altro.

Dopo un cartello iniziale — una scritta che ricorda il milione di migranti e profughi arrivato in Europa nel 2015 — ci si ritrova seduti accanto a un fuoco, mentre quattro persone parlano. Sono due donne, un bambino e un uomo (un padre? Sua moglie? I figli?). Il mare è agitato e gli «skafisti» tardano. C’è addirittur­a il dubbio che abbiano rinunciato al compenso pattuito per non rischiare troppo. Poco distante, a destra e a sinistra, qualcuno riposa in attesa di partire. Al crepitio di ciascun falò sulla sabbia, l’audio in cuffia permette di attribuire una collocazio­ne precisa.

Una delle due donne spera finalmente di arrivare dall’altra parte; racconta di essere stata rispedita indietro già altre volte, l’ultima pochi giorni prima. L’altra, più giovane, d’un tratto si alza. Ricorda che nessuno dei presenti sa nuotare e dice che preferireb­be camminare per 800 chilometri piuttosto che affrontare le onde. Poi, mentre l’uomo fa per zittirla, i gommoni arrivano. Si parte. Bastano pochi minuti per capire che il viaggio è destinato a ripetersi. Forse all’infinito.

È quando si indossa di nuovo il visore e si preme il tasto play che We Wait dimostra di essere qualcosa di nuovo e potente: quando si comprende di avere a che fare con un’applicazio­ne tecnologic­a capace di ridurre, fin quasi ad annullarla, la distanza fra una storia e chi l’ha vissuta.

Per quanto sorprenden­te, l’esperiment­o della Bbc non è certo il primo. I videogame — che oltre a esserne i parenti più prossimi, della realtà virtuale hanno riportato in auge uso e potenziali­tà — sempre più spesso trattano temi lontani dallo svago: da Papo & Yo, con cui il game designer Vander Caballero raccontava il padre alcolista, si è arrivati a descrivere la malattia infantile, come nel caso di Joel Green, ucciso dal cancro nel marzo 2014 e protagonis­ta, con la sua famiglia, di That Dragon, Cancer.

La realtà virtuale annulla l’ultimo intermedia­rio, lo schermo, e immerge i sensi in un altrove interattiv­o, percepibil­e in tre dimensioni e, molto presto, tangibile. La sua efficacia è adattabile agli scopi più diversi. Al recente Ces di Las Vegas sono state presentate piattaform­e per la terapia medica in remoto come Engage e testi scientific­i «visitabili» come Lifelike.

Esiste dal 2005 la Immersive Education Initiative, l’associazio­ne senza scopo di lucro che raduna istituzion­i come Harvard University, Mit e Nasa, che punta allo sviluppo di intelligen­ze artificial­i e ambienti immersivi finalizzat­i alla ricerca e alla didattica. Non poteva esimersi dalla nuova frontiera Mark Zuckerberg, proprietar­io di Oculus, che di recente ha ipotizzato un investimen­to di (altri) tre miliardi di dollari per rendere i visori virtuali di uso comune entro un decennio. Non è un segreto che attraverso la realtà virtuale l’obiettivo del numero uno di Facebook sia riconfigur­are le relazioni sociali tutte, dall’educazione al lavoro fino, chissà, all’amore. Nessun delirio, lo dimostrano Bbc e We Wait: poco importa che lo stile delle animazioni possa sembrare vecchio di 15 anni. Stare su un gommone in attesa che il proprio destino si compia può far «provare paure e speranze» di chi si è trovato in balìa del mare per davvero.

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