Corriere della Sera - La Lettura
Sul barcone virtuale, per sentirsi profughi
We Wait, cioè noi aspettiamo. Aspettiamo. Tanto, fo r s e t ut to . Pe r c hé We Wait , sviluppata dalla Bbc in collaborazione con Aardman Digital e da poche settimane disponibile online, è un’esperienza virtuale che riproduce in pochi minuti il viaggio via mare di una famiglia di profughi siriani, dalla Turchia alle coste della Grecia.
È stata realizzata, spiega l’emittente britannica, per «far sperimentare le paure e le speranze» di chi si trova ad affrontare una traversata così pericolosa. E raggiunge lo scopo come solo una narrazione immersiva potrebbe: costringendo chi guarda a stare dentro, come attori di un film, su una spiaggia prima e su un gommone dopo, immobili, salvo che per la possibilità di girare la testa e lo sguardo di 360 gradi.
Per quanto ogni cosa sia generata da un software, la paura assomiglia a quella vera. La si percepisce tutto il tempo, per gli schizzi d’acqua che colpiscono in faccia costringendo a guardare altrove, dove il mare, grosso, potrebbe inghiottirci in ogni momento. O per quella torcia elettrica che qualcuno continua a puntare negli occhi, perché alle nostre spalle un gommone come quello su cui viaggiamo noi si è rovesciato.
Basta indossare un visore per la realtà virtuale come Oculus Rift o Gear Vr ( We Wait è disponibile gratuitamente nello store digitale dei diversi brand) per finire nella storia e percepire la nostra presenza. Quasi in senso fisico. Come quando, in mare aperto, il gommone è affiancato da un pattugliatore della Guardia costiera greca: guardandolo se ne scorgono le dimensioni, la stabile presenza in acqua, l’armamento. La sua sagoma scura sovrasta la barchetta gonfiabile su cui navighiamo. Ed è vicina. Tanto da poterla toccare.
Poco importa che la grafica sia grossolana (come nei videogiochi d’un tempo, dalle curve irrealisticamente spigolose), i volti per così dire sintetici e le loro voci — in un inglese dal forte accento arabo — troppo stridule: gli spruzzi d’acqua di forma cubica e l’imponenza della nave che ci ha appena abbordati bastano per disorientare. Per innescare una reazione che è, anzitutto e volutamente, emotiva, perché lo scopo del progetto è proprio «far provare speranze e paure».
Elaborata sulla base di interviste a decine di profughi da Bbc Connected Studio — la sezione dell’emittente dedicata all’innovazione digitale e online — la stor i a di We Wait inizia di notte su una spiaggia. Un modo per ribadire che — benché quanto ci circonda sia stilizzato con tratti da cartoon — il dramma raccontato è reale. È una storia di donne e uomini vicini a noi. Un viaggio. E noi possiamo non solo conoscerne il resoconto, ma coglierne i rumori, guardarne in faccia i protagonisti, vederli muoversi e vivere i silenzi fra un accadimento e l’altro.
Dopo un cartello iniziale — una scritta che ricorda il milione di migranti e profughi arrivato in Europa nel 2015 — ci si ritrova seduti accanto a un fuoco, mentre quattro persone parlano. Sono due donne, un bambino e un uomo (un padre? Sua moglie? I figli?). Il mare è agitato e gli «skafisti» tardano. C’è addirittura il dubbio che abbiano rinunciato al compenso pattuito per non rischiare troppo. Poco distante, a destra e a sinistra, qualcuno riposa in attesa di partire. Al crepitio di ciascun falò sulla sabbia, l’audio in cuffia permette di attribuire una collocazione precisa.
Una delle due donne spera finalmente di arrivare dall’altra parte; racconta di essere stata rispedita indietro già altre volte, l’ultima pochi giorni prima. L’altra, più giovane, d’un tratto si alza. Ricorda che nessuno dei presenti sa nuotare e dice che preferirebbe camminare per 800 chilometri piuttosto che affrontare le onde. Poi, mentre l’uomo fa per zittirla, i gommoni arrivano. Si parte. Bastano pochi minuti per capire che il viaggio è destinato a ripetersi. Forse all’infinito.
È quando si indossa di nuovo il visore e si preme il tasto play che We Wait dimostra di essere qualcosa di nuovo e potente: quando si comprende di avere a che fare con un’applicazione tecnologica capace di ridurre, fin quasi ad annullarla, la distanza fra una storia e chi l’ha vissuta.
Per quanto sorprendente, l’esperimento della Bbc non è certo il primo. I videogame — che oltre a esserne i parenti più prossimi, della realtà virtuale hanno riportato in auge uso e potenzialità — sempre più spesso trattano temi lontani dallo svago: da Papo & Yo, con cui il game designer Vander Caballero raccontava il padre alcolista, si è arrivati a descrivere la malattia infantile, come nel caso di Joel Green, ucciso dal cancro nel marzo 2014 e protagonista, con la sua famiglia, di That Dragon, Cancer.
La realtà virtuale annulla l’ultimo intermediario, lo schermo, e immerge i sensi in un altrove interattivo, percepibile in tre dimensioni e, molto presto, tangibile. La sua efficacia è adattabile agli scopi più diversi. Al recente Ces di Las Vegas sono state presentate piattaforme per la terapia medica in remoto come Engage e testi scientifici «visitabili» come Lifelike.
Esiste dal 2005 la Immersive Education Initiative, l’associazione senza scopo di lucro che raduna istituzioni come Harvard University, Mit e Nasa, che punta allo sviluppo di intelligenze artificiali e ambienti immersivi finalizzati alla ricerca e alla didattica. Non poteva esimersi dalla nuova frontiera Mark Zuckerberg, proprietario di Oculus, che di recente ha ipotizzato un investimento di (altri) tre miliardi di dollari per rendere i visori virtuali di uso comune entro un decennio. Non è un segreto che attraverso la realtà virtuale l’obiettivo del numero uno di Facebook sia riconfigurare le relazioni sociali tutte, dall’educazione al lavoro fino, chissà, all’amore. Nessun delirio, lo dimostrano Bbc e We Wait: poco importa che lo stile delle animazioni possa sembrare vecchio di 15 anni. Stare su un gommone in attesa che il proprio destino si compia può far «provare paure e speranze» di chi si è trovato in balìa del mare per davvero.