Corriere della Sera - La Lettura
La guerra è una fiera: si combatte per vendere armi
I conflitti alimentano la produzione e viceversa. E i piccoli Stati comprano per contare
L’autore La visualizzazione di questa settimana è stata realizzata da Sabina Castagnaviz dell’Ufficio infografico del «Corriere della Sera»
Un carico di missili anticarro bloccato in Ucraina, forse un’operazione condotta dagli iraniani per aiutare formazioni amiche in Medio Oriente. Casse di razzi bulgari, nuovi di zecca, nelle mani di insorti siriani. I principi del Golfo che comprano e cercano nuove armi, riempiendo arsenali già colmi, in previsione di crisi internazionali e magari per aiutare i loro «clienti» locali. Mini Stati si ritagliano spazi rilevanti e il materiale bellico è un passaporto che apre molte porte: si formano schieramenti, si accresce influenza, si conquistano partnership. Così gli Emirati Arabi spaziano dalla Libia, dove hanno le mani in pasta nella guerra civile e foraggiano le milizie, al Corno d’Africa, area di reclutamento di «volontari» poi mandati a battersi nello Yemen. Dunque hanno bisogno di fucili, blindati, divise.
È una realtà composita dove piccole e grandi armi, sistemi complessi e tecnologia sono la merce di un gigantesco supermarket. La visualizzazione che pubblichiamo è una fotografia interessante, sfocata per quanto riguarda la Cina. Pechino partecipa alla corsa, sforna di tutto, ma è molto gelosa su numeri e dati. E infatti è a volte difficile tracciare i cinesi.
In questo mondo operano tanti fornitori. Come gli americani che fanno molta pubblicità ai loro prodotti, per venderli al Pentagono oppure a chiunque abbia abbastanza denaro. E poi i russi. L’intervento in Siria al fianco di Assad è legato a interessi strategici, alla necessità di salvare il regime che era al tracollo, all’obiettivo di creare una postazione fondamentale. Mosca e Damasco hanno infatti firmato un’intesa per l’ampliamento delle basi. Ma insieme a questo obiettivo regionale c’è l’intento — dichiarato — di far conoscere i mezzi impiegati. In mente c’è l’export, non solo la lotta al nemico. Infatti in questi mesi lo Stato Maggiore ha dispiegato una panoplia di apparati: missili da crociera, bombardieri, artiglierie, corvette, mezzi per sminare. L’offerta di contratti relativi alla difesa ha fiancheggiato la manovra diplomatica in Libia, dove stanno rinsaldando i legami con il generale Haftar, e in Egitto, con il presidente al Sisi.
Il contrasto all’Isis ha bruciato le scorte, costringendo molte fabbriche Usa, specie quelle che producono bombe intelligenti, ad aumentare i turni di produzione. La domanda non cala. In 29 mesi di caccia ai seguaci del Califfo la coalizione a guida statunitense ha condotto quasi 14 mila strike sulle posizioni jihadiste e ha lanciato oltre 40 mila «pezzi». Secondo il Pentagono la spesa per ordigni di precisione ha superato i due miliardi di dollari. Una singola bomba ha un prezzo che oscilla tra i 30 mila e 115 mila dollari. E poiché ci sono molti conflitti in corso — Iraq, Siria, Yemen, per citarne soltanto alcuni — dove è richiesto il loro impiego, può capitare che la catena della fornitura debba accelerare. Un grosso gruppo ha una cadenza di circa 40 unità al giorno, ma conta di arrivare a 150 alla fine di luglio. Senza contare che anche Paesi più piccoli oggi possono dotarsi di velivoli armati di questo tipo di missili, sempre impiegati contro formazioni terroristiche.
Nessuno si tira indietro. La concorrenza è dura. L’Italia è molto presente tra le monarchie del petrolio. Stiamo portan- do avanti il programma del caccia Typhoon in Kuwait e quello per la vendita di sette navi al Qatar, commessa soffiata ai francesi sulla linea del traguardo. Non mancano polemiche per i carichi di bombe destinate ai jet della coalizione saudita che ha mandato un contingente contro la ribellione yemenita. Poi c’è la voglia di droni, aerei guidati a distanza, in grado di stare a lungo in zona d’operazioni e pronti, se dotati di «artigli», a ghermire il target. Gli americani hanno aperto la strada con i Predator, quindi i Reaper, protagonisti assoluti di incursioni per eliminare i qaedisti. Il loro uso sotto Obama ha raggiunto livelli mai visti, ha permesso di aprire vuoti nei ranghi degli estremisti ma anche spinto molti Paesi a cercare di acquistarli o produrli.
È legittimo, sono uno strumento di difesa e offesa, ma è inevitabile che anche il nemico ci pensi. Lo Stato Islamico, non avendo la possibilità di avere grandi «macchine», si accontenta di modelli minuscoli — a volte poco più di un giocattolo — oppure li produce in officine. Oggetti volanti con i quali hanno cercato di colpire i soldati iracheni e siriani. Gesti dimostrativi che potrebbero però essere seguiti da ben altro. Magari in qualche città europea. L’aspetto interessante è che gli uomini di al Baghdadi hanno messo in piedi, dal 2014, la loro «industria» bellica, importando il necessario attraverso intermediari sparsi ovunque, recuperando componenti in Turchia, in Asia, in Europa. Tutto, ovviamente, in proporzione. E, a volte, attraverso i medesimi canali i militanti si procurano le munizioni.
Come avviene in ogni conflitto nasce un’economia clandestina, florida, resistente, che supera anche le ostilità del momento. Pensate ai cartelli della droga messicani, feroci e mai stanchi di eccidi. Mandano stupefacenti verso Nord, si procurano le bocche da fuoco nei negozi americani attraverso intermediari. Oppure pescano nella regione centro-americana. Non sono carri armati o caccia, però non sono neppure temperini.
L’America è ingorda di marijuana, cocaina, anfetamine. Un appetito insaziabile che rappresenta la fortuna dei narcos. L’America è vorace di revolver, pistole, copie di mitra, «doppiette», archi, balestre, pugnali. Per la tutela personale, per hobby, per andare a caccia di qualsiasi animale. È nel Dna, è nella storia. Il cittadino guarda al soldato, osserva cosa porta l’agente di polizia nella fondina. Mondo civile e militare sono molto vicini. Ecco perché c’era grande attenzione alla scelta del Pentagono per la nuova arma d’ordinanza destinata all’Us Army. I generali, dopo lunghi test e milioni spesi solo per le prove, hanno optato per la tedesca Sig P320 che rimpiazzerà l’italiana Beretta. La ditta italiana aveva proposto una versione aggiornata ma gli americani non l’hanno accolta. Il contratto iniziale vale 580 milioni di dollari ed è probabile che influenzerà anche le altre «branche», dall’aviazione ai marines.