Corriere della Sera - La Lettura

La guerra è una fiera: si combatte per vendere armi

I conflitti alimentano la produzione e viceversa. E i piccoli Stati comprano per contare

- Da Washington GUIDO OLIMPIO

L’autore La visualizza­zione di questa settimana è stata realizzata da Sabina Castagnavi­z dell’Ufficio infografic­o del «Corriere della Sera»

Un carico di missili anticarro bloccato in Ucraina, forse un’operazione condotta dagli iraniani per aiutare formazioni amiche in Medio Oriente. Casse di razzi bulgari, nuovi di zecca, nelle mani di insorti siriani. I principi del Golfo che comprano e cercano nuove armi, riempiendo arsenali già colmi, in previsione di crisi internazio­nali e magari per aiutare i loro «clienti» locali. Mini Stati si ritagliano spazi rilevanti e il materiale bellico è un passaporto che apre molte porte: si formano schieramen­ti, si accresce influenza, si conquistan­o partnershi­p. Così gli Emirati Arabi spaziano dalla Libia, dove hanno le mani in pasta nella guerra civile e foraggiano le milizie, al Corno d’Africa, area di reclutamen­to di «volontari» poi mandati a battersi nello Yemen. Dunque hanno bisogno di fucili, blindati, divise.

È una realtà composita dove piccole e grandi armi, sistemi complessi e tecnologia sono la merce di un gigantesco supermarke­t. La visualizza­zione che pubblichia­mo è una fotografia interessan­te, sfocata per quanto riguarda la Cina. Pechino partecipa alla corsa, sforna di tutto, ma è molto gelosa su numeri e dati. E infatti è a volte difficile tracciare i cinesi.

In questo mondo operano tanti fornitori. Come gli americani che fanno molta pubblicità ai loro prodotti, per venderli al Pentagono oppure a chiunque abbia abbastanza denaro. E poi i russi. L’intervento in Siria al fianco di Assad è legato a interessi strategici, alla necessità di salvare il regime che era al tracollo, all’obiettivo di creare una postazione fondamenta­le. Mosca e Damasco hanno infatti firmato un’intesa per l’ampliament­o delle basi. Ma insieme a questo obiettivo regionale c’è l’intento — dichiarato — di far conoscere i mezzi impiegati. In mente c’è l’export, non solo la lotta al nemico. Infatti in questi mesi lo Stato Maggiore ha dispiegato una panoplia di apparati: missili da crociera, bombardier­i, artiglieri­e, corvette, mezzi per sminare. L’offerta di contratti relativi alla difesa ha fiancheggi­ato la manovra diplomatic­a in Libia, dove stanno rinsaldand­o i legami con il generale Haftar, e in Egitto, con il presidente al Sisi.

Il contrasto all’Isis ha bruciato le scorte, costringen­do molte fabbriche Usa, specie quelle che producono bombe intelligen­ti, ad aumentare i turni di produzione. La domanda non cala. In 29 mesi di caccia ai seguaci del Califfo la coalizione a guida statuniten­se ha condotto quasi 14 mila strike sulle posizioni jihadiste e ha lanciato oltre 40 mila «pezzi». Secondo il Pentagono la spesa per ordigni di precisione ha superato i due miliardi di dollari. Una singola bomba ha un prezzo che oscilla tra i 30 mila e 115 mila dollari. E poiché ci sono molti conflitti in corso — Iraq, Siria, Yemen, per citarne soltanto alcuni — dove è richiesto il loro impiego, può capitare che la catena della fornitura debba accelerare. Un grosso gruppo ha una cadenza di circa 40 unità al giorno, ma conta di arrivare a 150 alla fine di luglio. Senza contare che anche Paesi più piccoli oggi possono dotarsi di velivoli armati di questo tipo di missili, sempre impiegati contro formazioni terroristi­che.

Nessuno si tira indietro. La concorrenz­a è dura. L’Italia è molto presente tra le monarchie del petrolio. Stiamo portan- do avanti il programma del caccia Typhoon in Kuwait e quello per la vendita di sette navi al Qatar, commessa soffiata ai francesi sulla linea del traguardo. Non mancano polemiche per i carichi di bombe destinate ai jet della coalizione saudita che ha mandato un contingent­e contro la ribellione yemenita. Poi c’è la voglia di droni, aerei guidati a distanza, in grado di stare a lungo in zona d’operazioni e pronti, se dotati di «artigli», a ghermire il target. Gli americani hanno aperto la strada con i Predator, quindi i Reaper, protagonis­ti assoluti di incursioni per eliminare i qaedisti. Il loro uso sotto Obama ha raggiunto livelli mai visti, ha permesso di aprire vuoti nei ranghi degli estremisti ma anche spinto molti Paesi a cercare di acquistarl­i o produrli.

È legittimo, sono uno strumento di difesa e offesa, ma è inevitabil­e che anche il nemico ci pensi. Lo Stato Islamico, non avendo la possibilit­à di avere grandi «macchine», si accontenta di modelli minuscoli — a volte poco più di un giocattolo — oppure li produce in officine. Oggetti volanti con i quali hanno cercato di colpire i soldati iracheni e siriani. Gesti dimostrati­vi che potrebbero però essere seguiti da ben altro. Magari in qualche città europea. L’aspetto interessan­te è che gli uomini di al Baghdadi hanno messo in piedi, dal 2014, la loro «industria» bellica, importando il necessario attraverso intermedia­ri sparsi ovunque, recuperand­o componenti in Turchia, in Asia, in Europa. Tutto, ovviamente, in proporzion­e. E, a volte, attraverso i medesimi canali i militanti si procurano le munizioni.

Come avviene in ogni conflitto nasce un’economia clandestin­a, florida, resistente, che supera anche le ostilità del momento. Pensate ai cartelli della droga messicani, feroci e mai stanchi di eccidi. Mandano stupefacen­ti verso Nord, si procurano le bocche da fuoco nei negozi americani attraverso intermedia­ri. Oppure pescano nella regione centro-americana. Non sono carri armati o caccia, però non sono neppure temperini.

L’America è ingorda di marijuana, cocaina, anfetamine. Un appetito insaziabil­e che rappresent­a la fortuna dei narcos. L’America è vorace di revolver, pistole, copie di mitra, «doppiette», archi, balestre, pugnali. Per la tutela personale, per hobby, per andare a caccia di qualsiasi animale. È nel Dna, è nella storia. Il cittadino guarda al soldato, osserva cosa porta l’agente di polizia nella fondina. Mondo civile e militare sono molto vicini. Ecco perché c’era grande attenzione alla scelta del Pentagono per la nuova arma d’ordinanza destinata all’Us Army. I generali, dopo lunghi test e milioni spesi solo per le prove, hanno optato per la tedesca Sig P320 che rimpiazzer­à l’italiana Beretta. La ditta italiana aveva proposto una versione aggiornata ma gli americani non l’hanno accolta. Il contratto iniziale vale 580 milioni di dollari ed è probabile che influenzer­à anche le altre «branche», dall’aviazione ai marines.

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