Corriere della Sera - La Lettura

Il romanzo serve ancora: favorisce la democrazia

Lo scrittore danese riflette sulla scrittura narrativa ai tempi della condivisio­ne

- Di JENS CHRISTIAN GRØNDAHL

Scrivere è sempre una sorta di traduzione, non da una lingua a un’altra, ma dallo spazio privato della coscienza a quello collettivo del linguaggio. Traduco la mia realtà interiore, inespressa, nel momento in cui trovo parole per descriverl­a, e così facendo divento un «Io». Solo nella comunanza della lingua faccio esperienza della mia originaria solitudine. Le parole fanno luce sul confine tra me e gli altri, nel momento stesso in cui lo varco.

Quando scrivo, uso la lingua che la società ha ereditato e, senza chiedere il permesso a nessuno, la sfrutto a fini personali. Così le parole perdono momentanea­mente il prestigio dell’ufficialit­à e cessano di essere cristalliz­zazioni compatte del sapere tramandato: nel momento in cui le faccio mie, diventano fragili, ambigue e senza peso, né più né meno dell’esperienza individual­e, che è una semplice percezione. Nondimeno, via via che la narrazione prende forma, le restituisc­o al linguaggio, ossia alle altre persone. Alla società.

Il romanzo getta un ponte fra la prospettiv­a individual­e e il quadro storico sociale. La narrazione, con il suo stile ribelle, diventa la storia di un’esistenza, laddove invece la società si sfalda in ciò che l’autore — o il suo protagonis­ta — deve affrontare nella sua fuga attraverso il tempo. Lo spazio, che è costituito dalle città, dalle regioni e dalle strutture di potere, si frammenta in immagini che vengono tenute insieme dalla cronologia narrativa, mentre l’esperienza di un’intera vita si solidifica in qualcosa di concreto, tridimensi­onale, pubblico: il libro. Se il romanzo offre sempre un quadro della propria epoca e della propria società, è al tempo stesso, indirettam­ente, il ritratto di chi osserva quel mondo. Nell’arte, lo sguardo viene prima del suo oggetto.

Forse si comincia a scrivere perché si ha letto. Quale che sia la molla che ci spinge a farlo, in ogni caso scriviamo perché sempliceme­nte abbiamo voglia di creare letteratur­a. Questo desiderio è legato al piacere ma anche alla vergogna: messi a confronto con le immortali opere dei defunti maestri, abbiamo l’impression­e che le nostre maldestre produzioni non abbiano peso né importanza. Che cosa ci è mai venuto in mente di presentarc­i così, nella letteratur­a, con le nostre piccole, insignific­anti, smozzicate percezioni? Dimentichi­amo che c’è stato un tempo in cui quei morti erano vivi, non erano ancora entrati nel canone letterario, ed erano vacillanti e incostanti quanto noi. In compenso non dimentichi­amo mai che cosa ci spinge a prendere in mano la penna: l’ancora muta sensazione che lì, nell’immenso edificio della tradizione letteraria, manchi qualcosa.

Lo sguardo prima dell’oggetto. Questo distacco mi serve, perché nel romanzo l’illusione di prossimità ha luogo solo in virtù del fatto che la narrazione sia un raccostame­nto incompiuto, che s’interrompe prima dell’arrivo. Gira intorno a una storia che non si può raccontare davvero, in parte perché le persone sono e restano un enigma, e in parte perché le storie si manifestan­o in quanto tali solo dopo essere giunte a conclusion­e.

Questo, perlomeno, è il modo in cui mi piace considerar­e il romanzo. Più ancora della trama, m’interessa lo sguardo che ne interpreta i personaggi e gli eventi. I personaggi non sono burattini. Al contrario, sono costretto a convincerm­i di non sapere quasi nulla e di essere solo un loro spettatore, mentre immagino come si sentirà il mio alter ego fittizio quando ripenserà a loro dall’altro lato dell’abisso degli anni, trovandoli misteriosi e insondabil­i. A renderli vivi e presenti davanti a me — e, credo, davanti al lettore — non è il fatto di conoscerli da vicino, ma l’esatto contrario: la distanza e una relativa estraneità.

Questa distanza ha anche la funzione di segnare il dovuto scarto fra verità e finzione.

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