Corriere della Sera - La Lettura
Due solitudini sul lettino di Jung
Esordi Giuliano Gallini racconta l’amore giovanile tra Ignazio Silone e Giulia Bassani a Zurigo. Lo scrittore di «Fontamara», modellato sul ritratto della moglie, appare immerso in una profonda tristezza
Chissà, Il confine di Giulia, romanzo d’esordio di Giuliano Gallini, rinfocolerà le discussioni storico-politiche d’un ventennio fa sul reale ruolo rivestito da Ignazio Silone negli anni dell’esilio tra doppiogiochismo col partito comunista e collaborazionismo con la polizia politica fascista.
Un Silone seguito dal gennaio 1931 al gennaio 1932 a Zurigo, tra sedute da Gustav Jung, ricerca d’un editore per Fonta
mara e processo cui lo sottopone il partito, concluso con la sua espulsione. Un Silone però coprotagonista, fungendo da movente narrativo l’incontro con Giulia Bassani, come lui paziente di Jung per depressioni frutto di momenti di «pesante crisi personale».
E ne viene un romanzo singolare: nel quale tutto avviene senza che nulla accada. Un romanzo di incontri da «sentieri interrotti». Nel senso che, al di là del rapporto anche intimo che si instaura tra i due protagonisti, resta un romanzo di solitudini. Perché i due non potrebbero appartenere a mondi più lontani: contadino quello di Silone, rifugiato politico a Zurigo con tante identità diverse, che fatica persino a comprarsi un cappotto per difendersi dal freddo; borghese quello di Giulia, che vi si ritrova per una gravidanza in seguito al rapporto con un giovane comunista berlinese ucciso dei nazisti, conosciuto a Berlino ove si era recata a proseguire gli studi dopo una laurea in filosofia con Piero Martinetti.
È però altrettanto vero che in questo romanzo costruito a scatole cinesi figura un terzo protagonista: l’anonima narratrice più che ottantacinquenne che in quel 1931 era una tredicenne alloggiante nello stesso albergo di Giulia e che questa vicenda racconta anni dopo alla luce dei ventidue quaderni neri su cui la ventisettenne Giulia lasciava appunti, poesie e un progetto di romanzo sul rapporto tra un rivoluzionario professionale e una poetessa. Dichiarando esplicitamente di dar corpo a quel progetto narrativo di Giulia in forma non memoriale, ma di «romanzo», tra racconto, considerazioni sull’ieri ma anche sull’oggi, postille, riflessioni sullo stesso narrare, nel quale si avverte una voce di nostalgia, propria di chi vive ora in un mondo nel quale non si riconosce. E tutto secondo un procedimento manzoniano, che vede l’autore Gallini che nelle considerazioni par sovrapporsi all’anonima narratrice alle prese con questo singolare «manoscritto ritrovato»; la quale a sua volta incrocia realtà e invenzione muovendosi tra documenti storici reali (Silone) e ricrea- zione di poesie e diari (Giulia).
Ed è proprio su queste due figure che s’incentra la narrazione. Due figure dialettiche e contrapposte. Tra un Silone che cerca di combattere le proprie incertezze ancorandosi a una fede quale che sia, purché dai valori assoluti, che, scontento di quella cristiana giovanile, si aggrappa a quella politica del comunismo, salvo poi trovare «in Cristo e nella sua sofferenza un senso al dolore degli uomini sulla terra». E una Giulia provata dalla costante «fatica di vivere», che da sempre si sente circondata da un intristente «sentimento oscuro» e che ha nella sua dialogicità lo specchio di una psicologia tormentata, predominandovi il campo espressivo del negativo, proprio d’un atteggiamento nichilistico, per la quale «tutto è inutile, orribile, e vano».
Una contrapposizione tra chi, Giulia, porta dentro di sé un dolore che non capisce, si aggrappa a Thomas Mann e Musil, salvo però esprimersi in versi, facendo affidamento sulla «scrittura», riprendendo «la penna solo dopo aver lasciato cantare le parole nell’anima, e averle tenute presso i miei pensieri»; e chi, Silone, cerca una realizzazione nella «narrazione», puntando ormai solo sul proprio futuro di scritto- re. Una ricerca, quest’ultima, che Gallini è bravo a situare nell’ambito cronologico già oltre Fontamara, di chi è ormai alle prese con la concezione religiosa poi depositata in Pane e vino.
Ma qui il problema è appunto Silone. Non tanto nella sua rappresentazione storico-politica, rispettosa dei dati storici dei suoi rapporti col partito e con la fascista Ovra, giustificando egli quest’ultimo rapporto col ricatto orchestrato arrestando il fratello Romolo (oggetto anche del suo incontro immaginato a Venezia col poliziotto dell’Ovra Bellone). È il Silone uomo, che autore e narratrice delineano narrativamente soprattutto con riferimento alla dichiarazione rilasciata dalla moglie Darina a Susanna Nirenstein; il Silone che non aveva «capacità o talento per l’amicizia», «non era mai rilassato», e che «in realtà non ho conosciuto bene. Credo che nessuno l’abbia mai conosciuto bene. So un mucchio di cose su di lui, ma non so la cosa. Era una persona profondamente tri- ste». Di qui un Silone spesso «sgradevole», a volte «meschino», «sfiduciato e sofferente», ma anche egocentrico nella sua totale tensione alla possibile pubblicazione di Fontamara: alla ricerca d’una propria realizzazione nella narrazione, in quella letteratura luogo per eccellenza della menzogna.
E Gallini si avvale di una scrittura elegante che sa ben muoversi nel donare i profili interiori dei personaggi principali, ben tratteggiati e giocati con fine sensibilità. In particolare Giulia, mentre un po’ macchiettistico è il personaggio di Jung. Così come risulta solitamente ben gestito il racconto da parte dell’anonima narratrice; salvo qualche accentuata insistenza nei commenti, e quella presenza dei camerieri dell’albergo a scalfire il crescendo di drammaticità che accompagnava Giulia all’attraversamento del «confine» su cui sin lì si era drammaticamente retta.