Corriere della Sera - La Lettura

La lite sul nero assoluto di Kapoor, il bianco sul bianco di Laib, l’azzurro di Kandinsky che sfocia nel blu di Klein, il rosa di Besant che naufraga nel rosso di Fontana

- di STEFANO BUCCI

1) Il rosa di Annie Besant

«Potrebbe sembrare banale — sostiene Christov-Bakargiev, direttrice della Gam di Torino — dire che il rosa di Annie Besant (1847-1933) sia unico perché è un’esplosione di vitalità». Il rosa dell’illustrazi­one realizzata da Besant per il suo libro Thought Forms, The Theosophic­al

Society (1905) non è dunque «semplice», ma «complesso» perché, come spiegava la stessa Besant (gran madre dell’astrazione teosofica), il colore deve sempre trasmetter­e emozioni. E perché «dipingere le forme vestite dalla luce di altri mondi con i colori ottusi della Terra è pur sempre un compito arduo. Esprimiamo gratitudin­e a chi ha tentato di farlo. Avrebbero bisogno di fuoco colorato, ma hanno solo pigmenti e terre a disposizio­ne». È proprio per superare i confini della superficie colorata che il rosa di Besant è anche forma, una forma (stavolta) con tante punte.

2) Il nero di Anish Kapoor

Si chiama Vantablack: è il nero assoluto brevettato (con tanto di polemica) da Sir Anish Kapoor (1954). Un nero capace di assorbire il 99,96% della luce. Untitled (2002) è la versione di questo nero assoluto in mostra a Torino. Unico perché, come ha spiegato Kapoor, «ha il potere di ingoiarti e farti scomparire. È il nero che ci portiamo dentro, il buio di quando chiudi gli occhi». Ma forse il maggior fascino di questo nero sta «nel suo significat­o psicologic­o», spiega Marcella Beccaria, una delle curatrici della mostra: «Davanti a ogni lavoro di Kapoor, che spesso associa al nero un altro colore pieno di significat­i nascosti come il rosso, siamo tentati di toccarlo e addirittur­a di entrarci dentro». Contro l’«appropriaz­ione impropria» del Vantablack, l’artista Stuart Semple ha appena prodotto Pink, una varietà di rosa a disposizio­ne di tutti tranne che di Kapoor.

3) Il grigio di Hito Steyerl

Da sempre il grigio è il colore del modernismo, del cemento e degli abiti da ufficio. Nell’opera-video Adorno’s Grey, (2012), Hito Steyerl (1966) si interroga sul ruolo tradiziona­le del grigio partendo dalle teorie di Adorno che si dice avesse personalme­nte scelto una tinta di grigio con cui dipingere le pareti della sua aula alla Goethe-Universitä­t di Francofort­e per tenere viva sulle sue parole, per via di contrasto, l’attenzione degli studenti. «Non è un caso — spiega un’altra delle curatrici della mostra torinese, Elena Volpato — che la storia sia legata a un’università intitolata a Goethe, padre della lettura emozionale e psicologic­a del colore, cioè di quella radice affettiva che il modernismo ha cercato di cancellare dal discorso dell’arte producendo opere in buona misura cromofobic­he: bianche, nere o, per l’appunto, grigie».

4) Il viola di Hilma af Klint

No. 3a, Series V (1920): questo il viola di Hilma af Klint (1862-1944), l’artista svedese (pioniera dell’astrattism­o pittorico) da poco riscoperta grazie a una grande mostra alla Serpentine Gallery di Londra (2016). Anche per lei il colore viola «è investito di simbologie spirituali, come elemento di unione ed elevazione di due tensioni contrarie che trovano un nuovo equilibrio in una realtà superiore». Non è un caso che Hilma af Klint, tra le figure più interessan­ti dell’arte di derivazion­e teosofica, «usi — per Volpato — il viola per definire la figura del triangolo centrale, a sua volta simbolo di ascensione e immagine della conquista di una sapienza che trascende il sapere umano e va verso la conoscenza divina». Altri artisti come Polke hanno proseguito questa tradizione «identifica­ndo nel viola il colore alchemico per eccellenza, i ndice dell’avvenuto ingresso nella dimensione metafisica».

5) L’arcobaleno di Edvard Munch

Quello dipinto da Ed var dM unch (1863-1944) nel suo Ritratto di Ingeborg con le braccia dietro la schiena (1912) o da Luigi Russolo (1885-1947) nel suo Profumo (1910) non è una sola tinta, ma una miscela chiamata arcobaleno. La loro non è una scelta anomala perché varrà anche per altri (da Balla a Pellizza da Volpedo). Il motivo? Perché in un arcobaleno si ritrovano in fondo tutti i colori del mondo. Munch (un Munch diverso, meno noto di quello dell’Urlo) sembra addirittur­a aver trasformat­o l’arcobaleno in una sorta di aureola intorno alla figura di Ingeborg, qualcosa che vibra oltre i confini della figura. O, piuttosto, che vanno ben oltre il confine di un semplice colore. E forse non è un caso che l’Ottocento di Munch sia anche il secolo del grande sviluppo della chimica e della scoperta di «altri» colori, quelli sintetici.

6) Il bianco di Wolfgang Laib

Pietra di latte (1983) è il titolo del lavoro di Wolfgang Laib (1950). Una delle caratteris­tiche di Laib è l’utilizzo di materiali naturali, come la cera d’api, il polline, il riso: queste sue Pietre di latte ( Milchstein­e) sono grandi blocchi concavi di marmo bianco riempiti di latte. Dunque, bianco su bianco, una sovrapposi­zione di materiali naturali che servono a Laib per dimostrare ancora una volta come il colore non possa essere solo uno strato steso

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