Corriere della Sera - La Lettura
E fuga dalla realtà le analogie con il presente
Il movimento nacque dall’incomunicabilità tra la politica e parte delle nuove generazioni. Un problema che torna ai giorni nostri
Quando ci si guarda intorno nel mondo di oggi e ci si sente un po’ smarriti di fronte a protervie di fondamentalisti, attacchi di terroristi e intolleranze di minoranze rumorose in rete, conviene attingere a insegnamenti dati dalle esperienze precedenti. Contribuire a un futuro migliore significa anche non ripetere errori già sperimentati. In Italia ricorre il quarantesimo anniversario dell’inizio del movimento del Settantasette. Cominciò male: nacque in risposta al ferimento di un ragazzo di sinistra, Guido Bellachioma, colpito il 1° febbraio a Roma da fascisti armati di pistola. Continuò peggio, il giorno seguente. Una manifestazione di studenti molto più affollata risultò poca cosa rispetto a un corteo dell’Autonomia operaia che lasciò l’Università La Sapienza per assaltare una sede missina. Gli «autonomi» spararono. Ridussero un agente di polizia in condizioni gravi. Due degli autonomi, armati, vennero arrestati. Feriti, neutralizzati in uno scontro a fuoco.
Non fu soltanto violenza, il movimento. Non fu solo questo, il Settantasette. Nel suo complesso, fu uno sgorgare di energie e malesseri di una gioventù cresciuta in epoca di scolarizzazione di massa e poi delusa, a causa della crisi economica, perché non trovava a sufficienza lavori adeguati al proprio grado di istruzione. Fu un anno nel quale diventò ancora più evidente che i programmi scolastici erano in parte datati. Fu l’occasione per il dispiegarsi più intenso delle proteste del femminismo. Fu uno dei primi momenti nei quali uscirono allo scoperto richieste collettive di non essere discriminati avanzate da omosessuali maschi e femmine. Fu l’eruzione dell’autoironia surreale e festosa degli Indiani metropolitani, allo stesso tempo figli e precursori di trucchi espressivi da pubblicitari, autori di slogan come «Meno case/ po-po-lari/ più centrali / nu-cle-ari», «Siamo/ felici/ di fare / sacrifici», «Siamo belli/ siamo tanti/ siamo covi saltellanti». Ma presto la violenza e le tracotanze organizzate dell’Autonomia spensero i sogni di parecchi ingenui, e talvolta anche sconsiderati, ragazzi. Le istanze dei quali si trovarono circondate da scontri sanguinosi, dal dilagare di eroina e Lsd, da incattivimenti di emarginati sobillati da pessimi e cinici maestri.
In un modo o nell’altro, nel bene e nel male, il 1977 è stato un anno fondamentale per molti italiani che oggi sono di mezza età. Ma per nessuno, né per le variegate anime della protesta né per lo Stato, ha segnato una vittoria.
Quante volte adesso parliamo di qualcuno, debole o potente, che viene messo alla gogna su internet? È immensamente diversa la forma, non la sostanza. Nel 1977 in Italia onesti professori di università, comunque si giudichino le loro idee o qualche comportamento retrò, furono assediati da cortei interni di minoranze violente di studenti. Furono intimiditi nel nome della «lotta alla selezione» affinché promuovessero agli esami anche quanti meritavano bocciature. In Cina la Rivoluzione culturale avviata nel 1966, esaltata in Occidente come fresca brezza rinnovatrice, era stata truce al punto di spingere ragazzi a vessare un’infinità di persone, causare linciaggi e suicidi.
Nei sabati del 5 e del 12 marzo 1977 i cortei studenteschi diventarono occasioni di scontri. Nel secondo caso, dalle pistole dell’Autonomia operaia e dalle bot- te o dalla successiva, finiscono sempre. Possono lasciare progressi, regressi e anche, spesso, elementi negativi e positivi intrecciati. Un prodotto lo offrono comunque, sebbene esistano diversi modi di elaborarlo: le lezioni che dagli eventi si possono ricavare.
Una delle descrizioni più efficaci della situazione attuale del nostro Paese l’ha fornita il presidente della società Ipsos, Nando Pagnoncelli, presentando un rapporto intitolato Italia 2017: una realtà su misura: «Gli italiani si trovano intorno alla difficoltà nel governare il loro rapporto con la realtà, una realtà che in particolare vivono come un’aggressione. Aggressione esterna, portato di fattori esogeni o percepiti come tali. Sotto un certo aspetto la globalizzazione, l’Europa, la crisi economica, i flussi migratori provocano reazioni sempre più incattivite difficili da controllare. Ma anche fattori endogeni, primo fra tutti il tema della difficoltà della politica a farsi carico delle sofferenze sociali». Non mancano alcune somiglianze con quarant’anni fa.
Al di là di chi ne ebbe più responsabilità, il 1977 fu il cortocircuito in una fase di incomunicabilità tra le istituzioni, le rappresentanze democratiche da una parte e alcuni settori di giovani cittadini dall’altra. Non veniva impiegato il termine «antipolitica», tuttavia lo Stato e i partiti non erano in buona salute, benché fossero più robusti di oggi. Nella sinistra che si definiva «rivoluzionaria», in contrapposizione al Partito comunista giudicato «riformista» con disprezzo, ci si prefiggeva di sostituire un «nuovo modo di far politica» ai machiavellismi dell’agire politico. L’esperimento non è riuscito.
Le proteste, il malcontento erano con evidenza più corposi di adesso. E anche allora come fuga dalla realtà non si scherzava: sia a causa di una sottocultura della droga sia del retropensiero, coltivato in ampi settori di giovani, secondo il quale miglioramenti del nostro modo di vivere sarebbero potuti venire dai modelli della Cina o di gruppi armati del Terzo Mondo, ai quali si attribuivano capacità leggendarie di portare giustizia. Sbandate fuorvianti, nel migliore dei casi.
Malgrado il tempo trascorso, oggi sembra di nuovo in aumento la capacità di attrazione di alcune sirene: ulteriori versioni dell’intolleranza verso l’esterno, il culto acritico di identità originarie non disposte al confronto con l’altro, l’uomo forte. Guardare in faccia la realtà e le sue complessità è più faticoso. Però conviene. I danni dovuti al terrorismo e i disagi sociali, nel 1978, furono anche peggiori.