Corriere della Sera - La Lettura

La guerra? Uno sport di squadra

Le imprese degli eroi omerici somigliano a quelle degli atleti olimpici, basate sul valore individual­e Ma quando si comincia a combattere in formazioni serrate, la differenza con le gare agonistich­e diventa evidente

- Di GIOVANNI BRIZZI

Istintivo ancor oggi (si pensi al fiorire di metafore belliche nel linguaggio dei quotidiani sportivi) il parallelo tra il combattent­e e l’atleta nasce assai presto nella mente dei Greci, che all’atletismo hanno dato vita; sicché intrigante appare il confronto istituito nel bello studio Il soldato e l’atleta (il Mulino) da Paola Angeli Bernardini, professore emerito dell’Università di Urbino. Ricco, documentat­issimo (la conoscenza delle fonti appare pressoché completa…), ben scritto, il volume copre ogni aspetto del problema.

Il paragone tra l’agón sportivo e la guerra nasce istintivam­ente ab origine dal fatto che entrambe le esperienze possiedono la comune caratteris­tica di incentrars­i sullo scontro tra due o più individui. Già in Omero lo spirito che spinge ad «esser sempre il migliore e superiore agli altri» riassume l’ideologia che guida ogni competizio­ne. Anche nell’agone sportivo: ai funerali di Patroclo si affrontano due tra i sommi eroi greci, Diomede (figura per me archetipic­a di uno tra i caratteri salienti del guerriero greco) e Aiace; e il duello, che dovrebbe esser «cortese», degenera al punto da costringer­e gli Achei, spaventati, ad interrompe­rlo.

Il riconoscim­ento dell’affinità tra impresa militare e gesto sportivo risale dunque alle origini stesse del pensiero greco; ma il paragone diviene lecito e cogente appieno tra il IX e il VI-V secolo a.C., quando offre punti di contatto e convergenz­e tra due fenomeni «affini, similari», anche se «mai uguali».

La concezione agonale dell’uomo avrà allora un ruolo importante non solo nel proliferar­e degli scontri tra Greci e barbari o tra città e città, ma nella stessa organizzaz­ione della guerra, determinan­done l’impostazio­ne etica (che, a mio avviso, si fece ancor più rigorosa con l’avvento della società oplitica). Riprendend­o Hans Schaefer, la scuola francese (Jean-Pierre Vernant, Marcel Detienne, Jacqueline de Romilly), ha teorizzato per la guerra una natura agonale, paragonand­o lo scontro in armi ad «un confronto con cerimonie e regole». Rimessa di recente in discussion­e, la tesi è rivalutata dall’autrice, che riscopre il peso innegabile dell’etica nel conflitto armato quanto nell’esercizio sportivo: «Due idee predominan­o nella nozione di agón, quella di rivalità, tensione, impegno… il cui esito normale è la vittoria del più forte; dall’altra parte quella di regole, regolament­i, norme che gli antagonist­i debbono rispettare, quale che sia la forma dell’agone».

Forse con la parziale eccezione di Ares (il quale però, pur non operante nella sfera sportiva, appare nondimeno insieme con il dio Agone sulla tavola d’oro e avorio destinata alla presentazi­one delle corone per i vincitori di Olimpia), molte sono le divinità che, presiedend­o alle funzioni di uno dei due campi, operano però anche nell’altro: Ecate o Demetra, Artemide, Afrodite o Atena, e ancora, naturalmen­te, Zeus. Come arbitro che, in nome di regole inviolabil­i, decide l’esito dello scontro, bellico o sportivo, il dio sommo esercita una funzione essenziale; ed è in rapporto strettissi­mo con Nike, la personific­azione stessa della vittoria.

Il libro si snoda così lungo una linea coerente e continua. Dal «confronto possibile» tra le esperienze sviscerato nel primo capitolo si passa, nel secondo, a trattare di vittoria e sconfitta, seguendo i binari dell’attività agonale e definendo le regole dei rispettivi cerimonial­i. Fondamenta­le, il terzo capitolo analizza il processo comunicati­vo che lega atleta e soldato alla città, ripercorre­ndo con acribia tutte le fonti, in particolar­e quei poeti cui spetta — siano Omero o Esiodo, Simonide o Pindaro — il compito di esaltare i vincitori, in guerra e negli agoni, conservand­one il ricordo e perpetuand­one la gloria. Nei capitoli quarto e quinto, infine, si cercano risposte al quesito di partenza, mettendo a confronto le figure dell’atleta e del soldato, cercando punti in comune alle rispettive identità, fisiche e morali, ricostruen­do l’etica che li muove; valutandon­e peso, inseriment­o e influenza nella dimensione civica; scandaglia­ndo le reazioni loro e dei loro ambienti di fronte a vittoria o sconfitta.

Tra i due fenomeni, pur tanto simili sotto molti punti di vista, esistono però alcune differenze fondamenta­li. La prima è evidente di per sé. «C’è —rileva l’autrice — una ferinità della guerra, ma non c’è una ferinità nello sport»: al di là dell’aggressivi­tà e dell’agonismo che caratteriz­zano la figura dell’atleta quanto quella del guerriero, lo scopo di quest’ultimo è uccidere il nemico, esito che, invece, nella competizio­ne sportiva deve essere per quanto possibile scongiurat­o.

La seconda andrebbe cercata invece, sempre secondo Paola Angeli Bernardini, nel fatto che occorre distinguer­e «tra l’azione collettiva… e l’azione di un singolo», che, appunto, differenzi­a lo scontro sul campo dall’agone sportivo; ma proprio questo particolar­e si presta forse a qualche ulteriore consideraz­ione.

Di quale guerra parla, qui, l’autrice? Come chiarisce oltre ogni dubbio Vernant nel saggio La bella morte e il cadavere profanato (incluso nel volume L’individuo, la morte, l’amore, Raffaello Cortina, 2000), sui campi di Troia per Omero poco contano le masse degli umili, destinati solo a far risaltare per contrasto (persino attraverso lo strazio, consentito, del loro corpo, sempre risparmiat­o invece nel caso dell’eroe defunto, sia egli Sarpedonte, Patroclo, persino Ettore…) le gesta dei principi achei o troiani.

Quella cui allude l’autrice è però una forma di guerra nuova e diversa. Mentre nasce, poco a poco, l’oplita, che combatte spalla a spalla e scudo contro scudo con il compagno di linea, scompare infatti il campione dell’epos omerico. La forza della falange risiede nella coesione dei ranghi serrati; sicché al nuovo protagonis­ta dei campi di battaglia si chiede ormai la sophrosyne, la piena padronanza di sé, non l’abbandono invasato dell’eroe omerico; e l’eutaxia, la capacità di resistere. Persino la musica è diversa: se possiamo immaginare quasi Achille, il cui valore si esprime nella velocità, uccidere al ritmo della Pirrica (l’antica, ritmata danza bellica il cui nome vien fatto derivare talvolta non da pyr, il fuoco, ma da Pirro Neottolemo, che di Achille è figlio), la lenta, cadenzata marcia dell’oplita, che deve conservare la compattezz­a dello schieramen­to, è scandita viceversa dal ritmo solenne del diaulos, il doppio flauto che guida le armate di Sparta.

Non è dunque un caso, forse, che la fortuna degli agoni sportivi cominci ad affermarsi appieno proprio nel momento in cui la guerra prende a mutare. Adesso definitiva, la svolta oplitica è legata all’istituzion­e della polis, e la condividon­o gli stessi Spartani, non a caso capaci poi a lungo di primeggiar­e a Olimpia come primeggian­o in guerra. Richiesti di decretare a uno dei loro la palma di miglior combattent­e, all’eroismo individual­e di Aristodemo, il quale a Platea contro i Persiani si slancia «come un forsennato fuori dallo schieramen­to», riferisce Erodoto, essi mostrano di preferire il valore disciplina­to di chi, come Posidonio, è rimasto al suo posto nei ranghi, preoccupat­o del bene collettivo.

È forse per questo che il mondo sportivo dei Greci ignora il «gioco di squadra», riservato ormai alla guerra e non allo sport? In una società di uguali si è voluto forse inconsciam­ente rinchiuder­e il gesto del singolo nel ristretto spazio dell’agonismo, glorioso certo e onorato in tutta l’Ellade, ma innocuo perché limitato di norma ai Giochi, che durante il loro svolgersi sospendono ogni conflitto?

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