Corriere della Sera - La Lettura
La voce di Nico fra i senzanome
Un interminabile elenco di foglie con i margini brinati accompagna il sentiero che si inoltra nel Grunewald, l’estesa foresta di latifoglie nell’immediata periferia ovest di Berlino. Meta prediletta per le gite nel verde delle famiglie cittadine, comodamente raggiungibile con la S-Bahn che ferma nella stazioncina omonima, poco più che una tettoia con le travature in legno e le tegole rosse. All’uscita, un paio di ristoranti con cucina tradizionale confermano il carattere di distacco dalla tumultuosa capitale tedesca. Pochi visitatori oggi per il gran freddo, clima ideale per la ricerca che stiamo compiendo. « I am tired, I am weary/ I could sleep for a thousand years/ A thousand dreams that would awake me/ Different colors made of tears ». Mentre si cammina, è difficile non ripassare nella mente le parole di un album ancora oggi sorprendente, pubblicato esattamente 50 anni fa, 12 marzo 1967: The Velvet Underground & Nico. Un esordio fulminante, le cui atmosfere assieme fascinose e opprimenti si accordano perfettamente con la tonalità di queste alberi misteriosi e cupi come colonne di cattedrali, con la severità delle conifere, con la progressiva rarefazione degli escursionisti man mano che procediamo per sentieri che si biforcano continuamente e mai si prodigano in indicazioni.
Di là dall’anniversario, che peraltro consegna quell’album alla storia della musica del Novecento, nel Grunewald c’è una ragione solida per ricordare quelle canzoni. Ma pazienza ancora, altre suggestioni insistono a rallentare la nostra attesa, come il Teufelssee, Lago del diavolo, o il Teufelsberg, Monte del diavolo, una collina artificiale costruita traslocando le macerie della Berlino bombardata e rasa al suolo, divenuta in seguito base elevata per il sistema di intercettazione spionistico occidentale. Il disuso attuale e lo sfacelo di tutte quelle cupole e torrette della Guerra Fredda aiutano a rammentare dove siamo.
Una quarantina di minuti di buon passo poi, superata una casetta che pare di marzapane, un’invenzione da fratelli Grimm, finalmente un cartello in legno sulla destra. Piuttosto lugubre. Zum Friedhof. Al cimitero. Sembra uscire da una fiaba eccentrica questo luogo di riposo in miniatura ricavato in una radura che alterna pace e inquietudine in maniera esasperata. Un muretto di cinta per difendersi dall’invadenza della foresta, le siepi, un portale in pietra all’entrata: eccolo, il Friedhof der Namenlosen, il «Cimitero dei senzanome» che i berlinesi chiamano anche Selbstmörderfriedhof, ovvero «Cimitero dei suicidi».
La sua storia è unica e vale la pena di conoscerla prima di varcare la soglia. Raccontano che la prima sepoltura fosse avvenuta nell’anno 1900, quando vennero rinvenute le spoglie di uno sconosciuto probabile suicida nel fiume Havel, che proprio nelle vicinanze forma una sacca dove la corrente gira su se stessa posando i detriti a riva. Interrato senza cerimonie nel cuore della foresta, a questo primo senzanome seguirono presto altri, tutti suicidi con modalità analoghe, tanto che comincerà ad allargarsi la fama di un luogo nella boscaglia dove restituire alla terra le salme imbarazzanti che non avrebbero potuto essere ospitate in terre consacrate per quel loro atto estremo ritenuto una bestemmia. Unbekannt, «sconosciuto»: una piccole lapide di legno andrà a riassumere con questa parola la storia di chi, sedotto dalla fama del luogo, aveva deciso di terminare nel fiume la propria esistenza.
L’attuale muretto di cinta verrà eretto nel 1927, dando forma circoscritta al luogo. Scostata la porticina d’entrata — un’insegna a forma di bara reca gli orari di apertura — l’interno si presenta come un dedalo di sentieri battuti e di una vegetazione che sembra inarrestabile, tanto da inghiottire buona parte delle sepolture. Tra loro, spiccano in altezza cinque croci ortodosse datate 1917, ulteriore ricorrenza centenaria. Cinque militari russi fedeli allo zar, che scelsero Grunewald per dare fine alla disperazione per il crollo dell’impero a opera dei bolscevichi.
È facile smarrirsi nell’intrico, non ci sono indicazioni né visitatori cui chiedere informazioni, e la sequela di cartelli in legno tutti uguali non aiuta ad avere riferimenti: Unbekannt 1945. Dalla Seconda guerra mondiale il cimitero si è aperto anche alla sepoltura di civili, nello specifico le vittime dei numerosi bombardamenti. Seguendo la miriade dei vialetti, infine, molto modesta, molto silenziosa, ritagliata tra il verde, la lapide nera che cercavamo appare. Margarete Päffgen 1910 - 1970, Christa Päffgen 1938 - 1988. Una madre, una figlia. Un nome d’arte pesante, quest’ultima: Nico. Questo il luogo scelto dai familiari come ultima dimora per la leggendaria cantante di Velvet Underground, lontano anni luce dal glamour internazionale che l’aveva vista protagonista nella Factory di Andy Warhol e a fianco di presenze quali Alain Delon, Brian Jones, Bob Dylan, Jim Morrison.
Modella di grande bellezza, attrice — Fellini la volle nella sua Dolce vita — una voce capace di impennate tenebrose e dolcezze inarrivabili, gli occhi spalancati come davanti a una minaccia, Nico ha saputo incarnare alla perfezione il ruolo della Musa algida e disperata, e assieme profondamente umana. Così come umanissima e impensabile la causa della sua morte, una caduta dalla bicicletta a Ibiza.
Il costume con cui si adorna oggi Nico è sottotono, a dispetto del suo splendore — peraltro sempre austero — di ieri. « And what costume shall the poor girl wear », cantava in All tomorrow’s parties. L’ornamento vero è quello con cui la omaggiano i fan che decidono di affrontare la camminata nella foresta per venirla a trovare. Fiori rossi, candele, foto incorniciate, un ciondolo con una minuscola chitarra elettrica, nastri colorati, ninnoli e gioiellini, un paio di statuette di angeli, a volte bottiglie di vino. Qualcuno depone una banana, a ricordare l’iconica copertina di quell’album di cinquant’anni fa, disegnata da Warhol. Un’urna in vetro raccoglie i numerosi bigliettini che le vengono dedicati. Forse questa è l’eredità migliore che poteva lasciare, di là da quell’unico straordinario album con i Velvet Underground e i numerosi, tutti imperdibili, album solisti che Nico comincia a pubblicare a partire sempre da quel 1967.
Cinquant’anni. « And where will she go and what shall she do/ when midnight comes around », dove andrà, che farò quando viene mezzanotte. Solo un tumulo di terra battuta, annerita. Nessuna pietra importante. Nessun proclama di grandezza. E chi le ha voluto bene come artista, si sente attratto a lei ancor più.