Corriere della Sera - La Lettura
Elisabetta I d’Inghilterra, la regina che parla italiano
La pubblicazione delle lettere scritte nell’idioma di Dante dalla sovrana inglese rilancia la loro importanza E permette di coglierne sia la non radicale ostilità nei confronti di Roma e del papato, sia le strategie per la cattolica Irlanda La matrigna Caterina Parr, sposa di Enrico VIII, spinse la futura regina verso gli studi classici ma anche verso la nostra lingua Che fu decisiva per apprendere l’arte della diplomazia (e del potere)
Elisabetta I è stata nella seconda metà del Cinquecento regina d’Inghilterra e d’Irlanda, in un regno esteso tra le due isole britanni c he non a ncora unif i ca to e provvisoriamente privato della Scozia presbiteriana, la quale aveva manifestato la propria contrarietà all’«Atto di supremazia» proclamato da Londra. Nota ai sudditi come la «buona regina Bess», portò per prima quel nome al trono, seguita solo dall’attuale regnante britannica, Elisabetta II, e fu l’ultima esponente della dinastia Tudor. Suo padre Enrico VIII, anche per via della madre di Elisabetta e di lui sposa di secondo letto Anna Bolena, aveva abbandonato la Chiesa romana per dar vita alla confessione anglicana.
Le sue principali decisioni politiche, in un regno durato poco meno di mezzo secolo, ce la restituirebbero come la figura di una monarca avversa in genere alle cose latine, in quanto contraria al «primato» temporale, politico-spirituale, di Roma e forte sostenitrice dell’anglicanesimo, essendosi posta in aperta contraddizione con il tentativo di restaurazione del cattolicesimo operato dalla sorellastra Maria Tudor «la sanguinaria» (figlia della prima unione del padre Enrico con Caterina d’Aragona), che l’aveva preceduta sul trono.
Era stata poi la sesta moglie del padre Enrico (da sempre alla ricerca dell’erede maschio), Caterina Parr, dopo essere riuscita a far riconciliare il re con le figlie Maria ed Elisabetta permettendone la reintroduzione nella linea dinastica, a imprimere in quest’ultima un’educazione di matrice rigorosamente protestante e nel contempo profondamente umanistica, il che le avrebbe fruttato la conoscenza — piuttosto straordinaria per una regina, non solo di quei tempi — del latino, del greco, del francese, e ancor più sorprendentemente, dell’italiano. La Parr dovette esercitare un forte ascendente su Elisabetta, facendole condividere l’amore per le arti figurative e la danza ma soprattutto inducendola, appunto, ad abbracciare gli interessi umanistici e forse anche ispirandole una lettura critica della Chiesa romana in chiave più politica che religiosa, come attesterebbe la commissione di una traduzione in inglese delle Parafrasi di Erasmo da Rotterdam, autore cattolico ma critico degli abusi del temporalismo petrino.
In effetti Elisabetta, salita al trono nel 1558, dedicò molto spazio del suo governo a fortificare l’indipendenza della Chiesa britannica, più però nella logica dell’autonomia di potere che in una forma di«p rotestantizzazione» tout court. Reseco sì obbligatoria una importante revisione del Book of Common Prayer, lezionario che fondeva la tradizione liturgica cattolica con quella protestante, e soprattutto ripristinò il paterno ActofS up remacy— provvisoriamente abrogato nel 1554 dalla sorellastra filo cattolica Maria—pur moderandone la definizione della potestà ecclesiale assoluta detenuta dalla Corona nell’originario testo del 1534 quale «unico capo supremo sulla terra della Chiesa in Inghilterra» alla più modesta di «governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra», tranquillizzando perlomeno i cattolici rimasti fedeli a Roma del suo Paese.
Se la sua figura, specie dopo la morte, fu annoverata nella novellistica trai« campioni» dell’ an ti cattolicesimo europeo, in realtà il suo appoggio politico e militare agli Stati confessi on al mente riformati non fu mai così convinto. E certamente Elisabetta, la quale crescendo con l’età fu sempre più sovente appellata come la «vergine regina» per il suo diniego assoluto di contrarre nozze e partorire (ponendo di fatto fine alla dinastia Tudor), espresse i suoi fini sentimenti di donna più che nell’azione di comando — dove peraltro inaugurò una tradizione femminile di singolare portata per il mondo britannico (si pensi alla regina Vittoria e all’attuale Elisabetta II, così come a Margaret Thatcher e all’attuale premier Theresa May) — nelle belles lettres, collaborando ad alimentare una stagione intellettuale che non a caso viene letterariamente definita come The Elizabethan Era. Pertanto, al di là del suo confronto diplomatico con la corte del Papa, Elisabetta dovette amare molto l’Italia, che in quell’epoca per i britannici era più che altro la terra di Dante, Boccaccio, Tasso, Ariosto, al punto da considerarsi — come nota Carlo Bajetta nell’edizione delle Italian Letters —« half Italian », mezza italiana. Conoscere l’italiano non voleva dire, secondo la regina, semplicemente apprezzarne l’estetica letteraria, ma poter accedere ai fondamenti dell’ars diplomatica elaborati nella Penisola dal Rinascimento, quali prerequisiti per servire lo Stato.
La concezione strategica dell’italiano di Elisabetta è provata dalla sua missiva al duca di Parma, Alessandro Farnese (comandante dell’armata spagnola delle Fiandre), databile tra febbraio e marzo 1587, dove la regina manifesta fermezza e persino ironia rispetto alla minaccia di una possibile invasione ispanica dell’Inghilterra anche attraverso la divisione con l’Irlanda — rimasta cattolica e così potenzialmente più incline all’influsso iberico — che il padre Enrico aveva voluto riassoggettare per evitare che divenisse avamposto di future invasioni del suolo patrio, denunciando che «li Spagnoli rassomigliando al cacciatore che diuise per la liberalita sua, fra gl’amici molti membri del lupo prima della presa sua, si hanno partito questo Regno, et quello d’Irlanda». Una lettera che potrebbe persino arricchire la comprensione dell’origine storica del conflitto politico-religioso esploso nella seconda metà del Novecento con i troubles nordirlandesi.