Corriere della Sera - La Lettura
La Terra diventa più fragile, quindi suscettibile e pericolosa Spariremo o ci salveremo diventando esseri tecnologici? Meglio imparare dal rapporto degli amerindi con la natura
Viviamo in un mondo accelerato, attraversando un paesaggio che, per molti versi, è già deserto. «Alla fine del deserto ci potrebbe essere una Non-Terra, almeno per noi come siamo; una Non-Terra per alieni nati con chissà quanti Dna e figli di chissà quali madri, robot e cyborg ancora più noiosi di quelli dei racconti di fantascienza». Così Claudio Magris, sul «Corriere della Sera» del 12 maggio. Stiamo correndo verso la Fine? Il riscaldamento globale, l’acidificazione degli oceani, la diminuzione dell’ozono nella stratosfera, il consumo vorace di suolo e acqua dolce, la perdita della biodiversità e altri processi che si muovono in modo sempre più veloce verso limiti che rischiano di stravolgere gli equilibri della Terra, indicano forse che siamo alla Fine?
Se Dio è morto da tempo, seguito dall’Anima, oggi è la terza idea trascendentale di Immanuel Kant a essere in discussione: il Mondo, quel carapace materiale della civiltà che fino a ieri era apparso minaccioso sì, ma capace di una vita indipendente da quegli esseri intelligenti che si agitano e corrono sulla superficie del globo da qualche centinaia di migliaia di anni. E invece no: non solo il mondo è sempre più insufficiente, ma l’Uomo (uso qui consapevolmente il termine al maschile) ha osato prometeicamente violentarlo, sfruttarlo, inciderlo così a fondo da stravolgere le leggi che lo reggono, a lungo pensate come oggettive. Con il rischio concreto e forse prossimo di distruggere le condizioni stesse della vita, di quella umana e di quella degli altri esseri.
All’inizio del millennio, due chimici dell’atmosfera, Paul Crutzen ed Eugene Stoermer, proposero per la prima volta in campo scientifico la definizione di «Antropocene», l’epoca o l’èra dell’anthropos. All’Olocene seguirebbe una nuova era del globo caratterizzata dalla trasformazione, indotta dalle attività umane, dei processi chimici, fisici, ambientali del sistema Terra. Come scrivono Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro nello splendido libro Esiste un mondo a venire? — ah, se solo gli autori avessero rinunciato ai tecnicismi elitari del loro lessico filosofico! — edito da Nottetempo e dedicato agli immaginari della fine del mondo, l’Antropocene designa un nuovo tempo in cui «la differenza di ampiezza tra la scala della storia umana e le scale cronologiche della biologia e della geofisica è diminuita drammaticamente, per non dire che tende a rovesciarsi: l’ambiente cambia più velocemente della società, e il futuro prossimo diviene non solo sempre più imprevedibile, ma forse sempre più impossibile».
La comparsa dell’Antropocene si accompagna a un’altra epifania: quella di Gaia ovvero «una nuova maniera di sperimentare lo spazio, attirando l’attenzione sul fatto che il nostro mondo, la Terra, da un lato divenuta improvvisamente piccola e fragile, dall’altro suscettibile e implacabile, ha assunto l’apparenza di una Potenza minacciosa che evoca le divinità indifferenti, imprevedibili e incomprensibili del nostro passato arcaico». Di colpo, riscaldamento climatico e crisi ambientali ci ricordano i limiti e la potenza di Gaia, sottolineata da autori come James Lovelock e Tyler Volk, così come avveniva agli antichi per la presenza minacciosa, ma anche feconda degli dèi Nettu-
Ino e Vulcano e per i Polinesiani di Pele (la divinità del fuoco e dei vulcani) e di Moana (l’Oceano). Attenzione però: Danowski e Viveiros de Castro, così come Bruno Latour in Face à Gaïa (La Découverte, 2015) e Philippe Descola in Oltre natura e cultura (Seid, 2014) non ci stanno parlando di un «ritorno» ad antiche superstizioni. Ci stanno dicendo che non siamo più moderni o forse non lo siamo mai stati veramente, come recita il titolo di un libro di Latour edito da Elèuthera, nel senso che sono venute meno quelle tranquillizzanti distinzioni tra natura e cultura, tra ecologia e politica, tra geologia e morale, almeno in quella goccia di universo che è rappresentata dall’eccezionalismo terreno.
Il cambiamento climatico prodotto dall’accelerazione della storia surriscalda anche il pensiero, sovvertendo la metafisica moderna e rimettendo in discussione la stessa definizione di anthropos. L’originalità dei nuovi argonauti dell’Antropocene (la triade Viveiros de Castro, Latour, Descola) sta però nel rimettere al centro della discussione la domanda relativa a chi sia questo anthropos che collide con Gaia. Da un lato infatti, l’umanità è composita e variegata, difficilmente si lascia ingabbiare in una definizione universale. E questo è importante anche a livello di responsabilità. Tutti i popoli sono ugualmente responsabili davanti ai disastri ambientali che stanno stravolgendo il pianeta? Günther Anders, in Le temps de la fin (l’Herne, 2oo7), ci invita a tenere presente che, se la
futuri pionieri del cosmo, quelli destinati a raggiungere Marte o a spingersi verso i satelliti di Giove o molto più lontano (per sete di conoscenza e per fuggire — ipotesi più fantascientifica — da una Terra divenuta inabitabile), potrebbero dormire per buona parte del viaggio. Più precisamente, potrebbero attraversare lo spazio ibernati, cioè in uno stato di metabolismo rallentato fino quasi a estinguerne il consumo energetico. Lo suggeriscono i progetti sull’ibernazione umana, o «torpore sintetico», che Nasa e Agenzia Spaziale Europea seguono in maniera sempre più decisa. Come insegna l’evoluzione, gli animali in grado di ridurre in maniera volontaria la temperatura corporea per portare le funzioni vitali al minimo, sopravvivono in ambienti ostili mantenendo inalterate le proprie condizioni psico-fisiche. Lo scoiattolo artico è capace di abbassare la propria temperatura fino a 3 gradi sotto lo zero per 6 mesi di fila. Per poi svegliarsi come non fosse passato un secondo.
Nello spazio, una soluzione analoga risponderebbe ad alcune delle sfide più difficili: pubblicati da «Science» nel 2011 a fronte di alcune scoperte sugli orsi bruni dell’Institute of Arctic Biology, in Alaska, i primi studi approfonditi sull’ibernazione hanno stimolato il lavoro di Mark Schaffer, John E. Bradford e Doug Talk,
della SpaceWorks Enterprises, società di Atlanta già partner della Nasa. La loro ricerca suggerisce che sottoporre i cosmonauti a lunghi periodi di torpore controllato potrebbe preservarli dai danni provocati dalle radiazioni cosmiche e dalla microgravità, limitando per esempio il rischio di mutazioni cellulari o i processi osteoporotici. L’ibernazione ridurrebbe anche lo stress psicologico di un isolamento lungo mesi o anni, quello cui i pellegrini diretti su Marte e poi oltre sarebbero costretti dagli attuali sistemi di propulsione. In più, il rallentamento del metabolismo potrebbe permettere di ridurre le scorte a bordo e quindi il peso dei veicoli spaziali. Cosa anche traducibile in un ridimensionamento drastico delle spese, visto che ogni chilo lanciato nello Spazio oggi costa circa 60 mila euro.
Le ricerche del Topical Team on Hibernation dell’Esa vanno nella stessa direzione: messo insieme tre anni fa, il gruppo internazionale di studiosi punta a sviluppare una tecnologia che consenta di indurre il «torpore sintetico» nei futuri viaggiatori spaziali. «Esiste — spiega Matteo Cerri, ricercatore in Neurofisiologia all’Università di Bologna, consu-