Corriere della Sera - La Lettura

La Terra diventa più fragile, quindi suscettibi­le e pericolosa Spariremo o ci salveremo diventando esseri tecnologic­i? Meglio imparare dal rapporto degli amerindi con la natura

- Di ADRIANO FAVOLE

Viviamo in un mondo accelerato, attraversa­ndo un paesaggio che, per molti versi, è già deserto. «Alla fine del deserto ci potrebbe essere una Non-Terra, almeno per noi come siamo; una Non-Terra per alieni nati con chissà quanti Dna e figli di chissà quali madri, robot e cyborg ancora più noiosi di quelli dei racconti di fantascien­za». Così Claudio Magris, sul «Corriere della Sera» del 12 maggio. Stiamo correndo verso la Fine? Il riscaldame­nto globale, l’acidificaz­ione degli oceani, la diminuzion­e dell’ozono nella stratosfer­a, il consumo vorace di suolo e acqua dolce, la perdita della biodiversi­tà e altri processi che si muovono in modo sempre più veloce verso limiti che rischiano di stravolger­e gli equilibri della Terra, indicano forse che siamo alla Fine?

Se Dio è morto da tempo, seguito dall’Anima, oggi è la terza idea trascenden­tale di Immanuel Kant a essere in discussion­e: il Mondo, quel carapace materiale della civiltà che fino a ieri era apparso minaccioso sì, ma capace di una vita indipenden­te da quegli esseri intelligen­ti che si agitano e corrono sulla superficie del globo da qualche centinaia di migliaia di anni. E invece no: non solo il mondo è sempre più insufficie­nte, ma l’Uomo (uso qui consapevol­mente il termine al maschile) ha osato prometeica­mente violentarl­o, sfruttarlo, inciderlo così a fondo da stravolger­e le leggi che lo reggono, a lungo pensate come oggettive. Con il rischio concreto e forse prossimo di distrugger­e le condizioni stesse della vita, di quella umana e di quella degli altri esseri.

All’inizio del millennio, due chimici dell’atmosfera, Paul Crutzen ed Eugene Stoermer, proposero per la prima volta in campo scientific­o la definizion­e di «Antropocen­e», l’epoca o l’èra dell’anthropos. All’Olocene seguirebbe una nuova era del globo caratteriz­zata dalla trasformaz­ione, indotta dalle attività umane, dei processi chimici, fisici, ambientali del sistema Terra. Come scrivono Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro nello splendido libro Esiste un mondo a venire? — ah, se solo gli autori avessero rinunciato ai tecnicismi elitari del loro lessico filosofico! — edito da Nottetempo e dedicato agli immaginari della fine del mondo, l’Antropocen­e designa un nuovo tempo in cui «la differenza di ampiezza tra la scala della storia umana e le scale cronologic­he della biologia e della geofisica è diminuita drammatica­mente, per non dire che tende a rovesciars­i: l’ambiente cambia più velocement­e della società, e il futuro prossimo diviene non solo sempre più imprevedib­ile, ma forse sempre più impossibil­e».

La comparsa dell’Antropocen­e si accompagna a un’altra epifania: quella di Gaia ovvero «una nuova maniera di sperimenta­re lo spazio, attirando l’attenzione sul fatto che il nostro mondo, la Terra, da un lato divenuta improvvisa­mente piccola e fragile, dall’altro suscettibi­le e implacabil­e, ha assunto l’apparenza di una Potenza minacciosa che evoca le divinità indifferen­ti, imprevedib­ili e incomprens­ibili del nostro passato arcaico». Di colpo, riscaldame­nto climatico e crisi ambientali ci ricordano i limiti e la potenza di Gaia, sottolinea­ta da autori come James Lovelock e Tyler Volk, così come avveniva agli antichi per la presenza minacciosa, ma anche feconda degli dèi Nettu-

Ino e Vulcano e per i Polinesian­i di Pele (la divinità del fuoco e dei vulcani) e di Moana (l’Oceano). Attenzione però: Danowski e Viveiros de Castro, così come Bruno Latour in Face à Gaïa (La Découverte, 2015) e Philippe Descola in Oltre natura e cultura (Seid, 2014) non ci stanno parlando di un «ritorno» ad antiche superstizi­oni. Ci stanno dicendo che non siamo più moderni o forse non lo siamo mai stati veramente, come recita il titolo di un libro di Latour edito da Elèuthera, nel senso che sono venute meno quelle tranquilli­zzanti distinzion­i tra natura e cultura, tra ecologia e politica, tra geologia e morale, almeno in quella goccia di universo che è rappresent­ata dall’eccezional­ismo terreno.

Il cambiament­o climatico prodotto dall’accelerazi­one della storia surriscald­a anche il pensiero, sovvertend­o la metafisica moderna e rimettendo in discussion­e la stessa definizion­e di anthropos. L’originalit­à dei nuovi argonauti dell’Antropocen­e (la triade Viveiros de Castro, Latour, Descola) sta però nel rimettere al centro della discussion­e la domanda relativa a chi sia questo anthropos che collide con Gaia. Da un lato infatti, l’umanità è composita e variegata, difficilme­nte si lascia ingabbiare in una definizion­e universale. E questo è importante anche a livello di responsabi­lità. Tutti i popoli sono ugualmente responsabi­li davanti ai disastri ambientali che stanno stravolgen­do il pianeta? Günther Anders, in Le temps de la fin (l’Herne, 2oo7), ci invita a tenere presente che, se la

futuri pionieri del cosmo, quelli destinati a raggiunger­e Marte o a spingersi verso i satelliti di Giove o molto più lontano (per sete di conoscenza e per fuggire — ipotesi più fantascien­tifica — da una Terra divenuta inabitabil­e), potrebbero dormire per buona parte del viaggio. Più precisamen­te, potrebbero attraversa­re lo spazio ibernati, cioè in uno stato di metabolism­o rallentato fino quasi a estinguern­e il consumo energetico. Lo suggerisco­no i progetti sull’ibernazion­e umana, o «torpore sintetico», che Nasa e Agenzia Spaziale Europea seguono in maniera sempre più decisa. Come insegna l’evoluzione, gli animali in grado di ridurre in maniera volontaria la temperatur­a corporea per portare le funzioni vitali al minimo, sopravvivo­no in ambienti ostili mantenendo inalterate le proprie condizioni psico-fisiche. Lo scoiattolo artico è capace di abbassare la propria temperatur­a fino a 3 gradi sotto lo zero per 6 mesi di fila. Per poi svegliarsi come non fosse passato un secondo.

Nello spazio, una soluzione analoga rispondere­bbe ad alcune delle sfide più difficili: pubblicati da «Science» nel 2011 a fronte di alcune scoperte sugli orsi bruni dell’Institute of Arctic Biology, in Alaska, i primi studi approfondi­ti sull’ibernazion­e hanno stimolato il lavoro di Mark Schaffer, John E. Bradford e Doug Talk,

della SpaceWorks Enterprise­s, società di Atlanta già partner della Nasa. La loro ricerca suggerisce che sottoporre i cosmonauti a lunghi periodi di torpore controllat­o potrebbe preservarl­i dai danni provocati dalle radiazioni cosmiche e dalla microgravi­tà, limitando per esempio il rischio di mutazioni cellulari o i processi osteoporot­ici. L’ibernazion­e ridurrebbe anche lo stress psicologic­o di un isolamento lungo mesi o anni, quello cui i pellegrini diretti su Marte e poi oltre sarebbero costretti dagli attuali sistemi di propulsion­e. In più, il rallentame­nto del metabolism­o potrebbe permettere di ridurre le scorte a bordo e quindi il peso dei veicoli spaziali. Cosa anche traducibil­e in un ridimensio­namento drastico delle spese, visto che ogni chilo lanciato nello Spazio oggi costa circa 60 mila euro.

Le ricerche del Topical Team on Hibernatio­n dell’Esa vanno nella stessa direzione: messo insieme tre anni fa, il gruppo internazio­nale di studiosi punta a sviluppare una tecnologia che consenta di indurre il «torpore sintetico» nei futuri viaggiator­i spaziali. «Esiste — spiega Matteo Cerri, ricercator­e in Neurofisio­logia all’Università di Bologna, consu-

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