Corriere della Sera - La Lettura
Ridateci le ideologie Sono l’unico antidoto alla retorica populista che invoca onestà contro l’establishment
Negli ultimi tempi la distanza programmatica tra i partiti tradizionali si è molto ridotta. Perciò non si compete più su progetti diversi di società, ma soprattutto su valori morali. Una situazione di cui si avvantaggiano i demagoghi
In questi ultimi decenni si è consolidata, con rare eccezioni, una importante novità nelle democrazie contemporanee, ovvero la sostanziale convergenza ideologica e programmatica dei partiti su molte tematiche. Una convergenza a volte perseguita dagli stessi protagonisti della vita politica; più spesso subita controvoglia per effetto di elementi esterni difficilmente controllabili — dalla caduta del Muro di Berlino ai limiti imposti dalla moneta unica, vincoli di bilancio e «troika» inclusi. Il risultato finale, però, non cambia. Analizzando i dati del «Manifesto Project Database», che ha raccolto e codificato tutti i manifesti elettorali dal dopoguerra a oggi, si scopre che, dagli anni Sessanta, la polarizzazione programmatica dei partiti (calcolata come loro rispettiva distanza lungo l’asse ideologico sinistra-destra) è scesa di quasi il 40 per cento. D’altra parte, ed esattamente lungo lo stesso arco temporale, assistiamo a una opposta e spettacolare crescita di quanto i partiti politici nei loro programmi parlano del tema della corruzione: un aumento del 90 per cento.
C’è una relazione tra questi due opposti trend? E, più in generale, che cosa c’entra tutto questo con la recente ascesa dei partiti populisti in molte democrazie? Parecchio, a dire il vero. Quando si pensa a una competizione elettorale viene spesso naturale pensare a uno scontro sui programmi, sulle proposte, sulle politiche — cioè quello che divide gli elettori e contrappone i partiti: quanta redistribuzione del reddito dovremmo adottare? Fare o non fare il ponte sullo stretto di Messina? E così via. Ma, ovviamente, non si compete solo sulle politiche. L’altro grande tema nel confronto politico è giocato dai valori (o valence issues — questioni di valenza): la differenza fondamentale rispetto alle politiche è che, se su queste ultime esiste una diversità di preferenze tra elettori (c’è qualcuno ad esempio che vorrebbe più, e qualcuno che vorrebbe meno, redistribuzione del reddito), lo stesso non si può dire sulle questioni di valori, che rappresentano al contrario obiettivi condivisi da (quasi) tutto l’elettorato. L’esempio tipico è quello dell’onestà (e del suo alter ego, la corruzione di cui sopra). Chi vorrebbe un partito corrotto? O inaffidabile? O indegno di fiducia? O incompetente? Nessuno (o quasi).
In questo senso, la scelta di competere sui programmi, piuttosto che sui valori, è qualche cosa di interconnesso. Una varietà importante di ricerche converge infatti nel sottolineare che quanto più i partiti risultano programmaticamente vicini tra di loro, perché ideologicamente simili, tanto maggiore sarà il loro incentivo a sottolineare nella loro contrapposizione i sopraccitati valori. La ragione è intuitiva. Se due partiti (o candidati) hanno differenze programmatiche assai contenute, criticare il programma dell’altro significa implicitamente anche attaccare il proprio. Analogamente, sottolineare i meriti della propria piattaforma politica implica indirettamente tessere le lodi di quella del diretto contendente. Perché allora correre il rischio di farlo? Quanto più le posizioni programmatiche sono percepite, a torto o a ragione, come simili, tanto più i partiti si trovano costretti a trovare una strada alternativa per differenziarsi di fronte agli elettori.
Le questioni di valore permettono esattamente di fare questo, accrescendo di conseguenza il loro impatto elettorale. Ecco quindi il successo in questi anni di slogan quali il «partito degli onesti», o, e specularmente, il «partito dei corrotti».
Insomma, la convergenza programmatica dei partiti nelle democrazie contemporanee ha liberato un importante spazio elettorale per la competizione sui valori prima assente, soprattutto per quei partiti in grado di fare propria la bandiera dei valori meglio di altri. Ecco allora tornare di prepotenza il tema dei populismi. Ciò che infatti accomuna i populisti, prima di ogni altra cosa, è proprio il loro essere «partiti di valore». Cosa non è, dopotutto, la chiamata (virtuale) alle armi del «cittadino comune» contro il «corrotto establishment» se non una questione di valore per eccellenza?
D’altra parte, i partiti populisti, che hanno spesso un bagaglio ideologico per storia o cultura meno ingombrante rispetto ai loro colleghi, sono particolarmente flessibili a questo riguardo. E i loro successi, da Donald Trump al Movimento 5 Stelle, con slogan caratterizzati da parole d’ordine che rimangono puramente di valore (si pensi al trumpiano Make America Great Again), lo dimostrano bene.
Insomma, di fronte a una geografia programmaticamente (sempre più) convergente sulle questioni politiche davvero rilevanti, la spinta populista, lungi dall’esaurirsi con il passare del tempo o con l’uscita dalla crisi economica, rischia al contrario di diffondersi per mere ragioni di convenienza elettorale: la strada più efficace per conquistare il cuore, prima ancora dei voti, degli elettori. Questo significa anche che i partiti populisti che vanno per la maggiore oggi potrebbero ben scomparire nel tempo. Il «germe populista» disseminato nella competizione politica, inteso come strategia di confronto incentrata largamente sui valori piuttosto che sui programmi, no.
La diffusione di argomenti e stili di comunicazione proto-populisti anche in forze politiche che populiste non sono, ne sarebbe nient’altro che il precursore. E così, se è vero che le recenti elezioni olandesi non hanno visto il trionfo del populista Geert Wilders, occorre anche aggiungere che questo è stato possibile perché, come notato dal «New York Times», il partito di governo guidato da Mark Rutte ha fatto suoi diversi degli slogan propri del Partito per la Libertà di Wilders. Tanto da spingere qualcuno, come sul raffinato sito «Politico», a parlare in questo caso del right kind of populism. Un «populismo buono» da contrapporre agli altri populismi. Oppure prendiamo Emmanuel Macron. Chiaramente non un candidato populista (semmai, per molti, il contrario: un perfetto «candidato del sistema», transitato dall’École nationale d’administration passando per la Rothschild) con un messaggio programmatico tutt’altro che populista (basti pensare al suo sostegno per il grande nemico retorico dei populisti nostrani, ovvero l’Unione Europea). Eppure. Eppure Macron, per avere successo, ha sentito la necessità di presentarsi come un perfetto e giovane outsider, lontano dalle etichette di sinistra e destra, estraneo all’oligarchico «politichese» così foriero di scandali agli occhi dei francesi (chiedete a Fillon a riguardo), con un movimento, En Marche!, non con un partito, perché i partiti «sono morti». Un anti-populista, dunque, che in fondo potrebbe anche essere visto come un «populista soft», come ci ricorda in un recente saggio Fabio Bordignon, ricercatore dell’Università di Urbino Carlo Bo.
Ma attenzione: una volta che i valori diventano la principale merce di scambio nella competizione politica, il rischio è che sfuggano di mano, fino a delegittimare l’intero sistema politico a furia di attacchi personali e accuse reciproche di incompetenza, disonestà o furbizia. Creando, per questa via, esattamente quel «brodo politico» in cui i presenti (e futuri) movimenti populisti si trovano più a loro agio.
Quale sarebbe, allora, l’unica contro-mossa? Ecco il paradosso. Dopo aver passato anni a parlare dei mali connessi a una forte polarizzazione ideologica nell’arena politica, ci ritroviamo senza più alcuna narrazione ideologica forte, proprio quando un revival ideologico (e quindi una accresciuta e nuova diversità programmatica tra i partiti) potrebbe rappresentare il vero antidoto al populismo. La «fine della storia» (e dell’ideologia) preconizzata da Francis Fukuyama in quell’ottimistico, ma ormai un po’ datato, 1989, rischia, dunque, non tanto di segnare il trionfo della democrazia liberale, quanto l’inizio di un suo lento trasformarsi in qualcosa d’altro. Il cui contenuto è ancora tutto da scoprire.