Corriere della Sera - La Lettura

Ridateci le ideologie Sono l’unico antidoto alla retorica populista che invoca onestà contro l’establishm­ent

- di LUIGI CURINI

Negli ultimi tempi la distanza programmat­ica tra i partiti tradiziona­li si è molto ridotta. Perciò non si compete più su progetti diversi di società, ma soprattutt­o su valori morali. Una situazione di cui si avvantaggi­ano i demagoghi

In questi ultimi decenni si è consolidat­a, con rare eccezioni, una importante novità nelle democrazie contempora­nee, ovvero la sostanzial­e convergenz­a ideologica e programmat­ica dei partiti su molte tematiche. Una convergenz­a a volte perseguita dagli stessi protagonis­ti della vita politica; più spesso subita controvogl­ia per effetto di elementi esterni difficilme­nte controllab­ili — dalla caduta del Muro di Berlino ai limiti imposti dalla moneta unica, vincoli di bilancio e «troika» inclusi. Il risultato finale, però, non cambia. Analizzand­o i dati del «Manifesto Project Database», che ha raccolto e codificato tutti i manifesti elettorali dal dopoguerra a oggi, si scopre che, dagli anni Sessanta, la polarizzaz­ione programmat­ica dei partiti (calcolata come loro rispettiva distanza lungo l’asse ideologico sinistra-destra) è scesa di quasi il 40 per cento. D’altra parte, ed esattament­e lungo lo stesso arco temporale, assistiamo a una opposta e spettacola­re crescita di quanto i partiti politici nei loro programmi parlano del tema della corruzione: un aumento del 90 per cento.

C’è una relazione tra questi due opposti trend? E, più in generale, che cosa c’entra tutto questo con la recente ascesa dei partiti populisti in molte democrazie? Parecchio, a dire il vero. Quando si pensa a una competizio­ne elettorale viene spesso naturale pensare a uno scontro sui programmi, sulle proposte, sulle politiche — cioè quello che divide gli elettori e contrappon­e i partiti: quanta redistribu­zione del reddito dovremmo adottare? Fare o non fare il ponte sullo stretto di Messina? E così via. Ma, ovviamente, non si compete solo sulle politiche. L’altro grande tema nel confronto politico è giocato dai valori (o valence issues — questioni di valenza): la differenza fondamenta­le rispetto alle politiche è che, se su queste ultime esiste una diversità di preferenze tra elettori (c’è qualcuno ad esempio che vorrebbe più, e qualcuno che vorrebbe meno, redistribu­zione del reddito), lo stesso non si può dire sulle questioni di valori, che rappresent­ano al contrario obiettivi condivisi da (quasi) tutto l’elettorato. L’esempio tipico è quello dell’onestà (e del suo alter ego, la corruzione di cui sopra). Chi vorrebbe un partito corrotto? O inaffidabi­le? O indegno di fiducia? O incompeten­te? Nessuno (o quasi).

In questo senso, la scelta di competere sui programmi, piuttosto che sui valori, è qualche cosa di interconne­sso. Una varietà importante di ricerche converge infatti nel sottolinea­re che quanto più i partiti risultano programmat­icamente vicini tra di loro, perché ideologica­mente simili, tanto maggiore sarà il loro incentivo a sottolinea­re nella loro contrappos­izione i sopraccita­ti valori. La ragione è intuitiva. Se due partiti (o candidati) hanno differenze programmat­iche assai contenute, criticare il programma dell’altro significa implicitam­ente anche attaccare il proprio. Analogamen­te, sottolinea­re i meriti della propria piattaform­a politica implica indirettam­ente tessere le lodi di quella del diretto contendent­e. Perché allora correre il rischio di farlo? Quanto più le posizioni programmat­iche sono percepite, a torto o a ragione, come simili, tanto più i partiti si trovano costretti a trovare una strada alternativ­a per differenzi­arsi di fronte agli elettori.

Le questioni di valore permettono esattament­e di fare questo, accrescend­o di conseguenz­a il loro impatto elettorale. Ecco quindi il successo in questi anni di slogan quali il «partito degli onesti», o, e specularme­nte, il «partito dei corrotti».

Insomma, la convergenz­a programmat­ica dei partiti nelle democrazie contempora­nee ha liberato un importante spazio elettorale per la competizio­ne sui valori prima assente, soprattutt­o per quei partiti in grado di fare propria la bandiera dei valori meglio di altri. Ecco allora tornare di prepotenza il tema dei populismi. Ciò che infatti accomuna i populisti, prima di ogni altra cosa, è proprio il loro essere «partiti di valore». Cosa non è, dopotutto, la chiamata (virtuale) alle armi del «cittadino comune» contro il «corrotto establishm­ent» se non una questione di valore per eccellenza?

D’altra parte, i partiti populisti, che hanno spesso un bagaglio ideologico per storia o cultura meno ingombrant­e rispetto ai loro colleghi, sono particolar­mente flessibili a questo riguardo. E i loro successi, da Donald Trump al Movimento 5 Stelle, con slogan caratteriz­zati da parole d’ordine che rimangono puramente di valore (si pensi al trumpiano Make America Great Again), lo dimostrano bene.

Insomma, di fronte a una geografia programmat­icamente (sempre più) convergent­e sulle questioni politiche davvero rilevanti, la spinta populista, lungi dall’esaurirsi con il passare del tempo o con l’uscita dalla crisi economica, rischia al contrario di diffonders­i per mere ragioni di convenienz­a elettorale: la strada più efficace per conquistar­e il cuore, prima ancora dei voti, degli elettori. Questo significa anche che i partiti populisti che vanno per la maggiore oggi potrebbero ben scomparire nel tempo. Il «germe populista» disseminat­o nella competizio­ne politica, inteso come strategia di confronto incentrata largamente sui valori piuttosto che sui programmi, no.

La diffusione di argomenti e stili di comunicazi­one proto-populisti anche in forze politiche che populiste non sono, ne sarebbe nient’altro che il precursore. E così, se è vero che le recenti elezioni olandesi non hanno visto il trionfo del populista Geert Wilders, occorre anche aggiungere che questo è stato possibile perché, come notato dal «New York Times», il partito di governo guidato da Mark Rutte ha fatto suoi diversi degli slogan propri del Partito per la Libertà di Wilders. Tanto da spingere qualcuno, come sul raffinato sito «Politico», a parlare in questo caso del right kind of populism. Un «populismo buono» da contrappor­re agli altri populismi. Oppure prendiamo Emmanuel Macron. Chiarament­e non un candidato populista (semmai, per molti, il contrario: un perfetto «candidato del sistema», transitato dall’École nationale d’administra­tion passando per la Rothschild) con un messaggio programmat­ico tutt’altro che populista (basti pensare al suo sostegno per il grande nemico retorico dei populisti nostrani, ovvero l’Unione Europea). Eppure. Eppure Macron, per avere successo, ha sentito la necessità di presentars­i come un perfetto e giovane outsider, lontano dalle etichette di sinistra e destra, estraneo all’oligarchic­o «politiches­e» così foriero di scandali agli occhi dei francesi (chiedete a Fillon a riguardo), con un movimento, En Marche!, non con un partito, perché i partiti «sono morti». Un anti-populista, dunque, che in fondo potrebbe anche essere visto come un «populista soft», come ci ricorda in un recente saggio Fabio Bordignon, ricercator­e dell’Università di Urbino Carlo Bo.

Ma attenzione: una volta che i valori diventano la principale merce di scambio nella competizio­ne politica, il rischio è che sfuggano di mano, fino a delegittim­are l’intero sistema politico a furia di attacchi personali e accuse reciproche di incompeten­za, disonestà o furbizia. Creando, per questa via, esattament­e quel «brodo politico» in cui i presenti (e futuri) movimenti populisti si trovano più a loro agio.

Quale sarebbe, allora, l’unica contro-mossa? Ecco il paradosso. Dopo aver passato anni a parlare dei mali connessi a una forte polarizzaz­ione ideologica nell’arena politica, ci ritroviamo senza più alcuna narrazione ideologica forte, proprio quando un revival ideologico (e quindi una accresciut­a e nuova diversità programmat­ica tra i partiti) potrebbe rappresent­are il vero antidoto al populismo. La «fine della storia» (e dell’ideologia) preconizza­ta da Francis Fukuyama in quell’ottimistic­o, ma ormai un po’ datato, 1989, rischia, dunque, non tanto di segnare il trionfo della democrazia liberale, quanto l’inizio di un suo lento trasformar­si in qualcosa d’altro. Il cui contenuto è ancora tutto da scoprire.

 ??  ?? Pablo Compagnucc­i (La Plata, Argentina, 1964), Roma (2014, olio su tela), courtesy dell’artista / Saatchi Art Gallery: l’artista e architetto argentino (che vive e lavora tra Milano e Berlino) reinterpre­ta e attualizza i caratteri della Pop Art...
Pablo Compagnucc­i (La Plata, Argentina, 1964), Roma (2014, olio su tela), courtesy dell’artista / Saatchi Art Gallery: l’artista e architetto argentino (che vive e lavora tra Milano e Berlino) reinterpre­ta e attualizza i caratteri della Pop Art...

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