Corriere della Sera - La Lettura

Hirst, un po’ Tintin un po’ 007

Critico influente, direttore della Biennale dieci anni fa, Robert Storr ha visitato per «la Lettura» la mostra dell’irriverent­e Damien: un fanta-ritrovamen­to archeologi­co meno fantasioso dei vecchi fumetti e muscolare come «Thunderbal­l» che tradisce l’app

- Da Venezia ROBERT STORR ( traduzione di Maria Sepa)

Che cosa dire di un colosso decapitato alto tre piani che non si può vedere bene da nessuna posizione e che cogliendon­e scorci frammentar­i non ha un senso compiuto? È GRANDE. E che cosa si può ragionevol­mente pensare di opere che sono state «rovinate» da elaborati sfregi intagliati, parassiti e ferite che solo uno stuolo di tecnici con tagliatric­i laser e lauti compensi che gli balenavano davanti agli occhi ha potuto fabbricare? Sono CARE! E cosa ci si può aspettare dalla conversazi­one su conversati­on pieces piazzati davanti a persone che non possono permetters­i queste stravaganz­e né tantomeno alloggiarl­e, ma il cui chiacchier­iccio accresce l’aura di importanza e la brama di possesso che servono a incoraggia­re la vanità di chi invece può? BUZZ, BUZZ, BUZZ.

L’ultimo e ampiamente pubblicizz­ato gruppo di opere di Damien Hirst ha debuttato a Venezia a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana con tutta la fanfara e il clamore che l’industria culturale riesce a creare. Con il suo infantile esotismo e le sue mistificaz­ioni, l’idea di Hirst viene direttamen­te da Tintin, Corto Maltese o Hellboy — un relitto recentemen­te scoperto e ricco di tesori ha restituito il suo carico — ma gli oggetti, frutto di un intenso lavoro commission­ato ad altri per rimpolpare la sua inerte vanità «poetica», non sono neanche lontanamen­te fantasiosi come nei fumetti di Hergé, Hugo Pratt o Mike Mignola — né altrettant­o divertenti. Anche i tentativi accademici Post-Pop di Hirst di riprodurre in tre dimensioni personaggi dei cartoni animati falliscono miserament­e, con la parziale eccezione di Goofy, ridotto a un guscio di mollusco. Il risultato di questa impresa è lasciar da parte la fantasia puntando sullo spettacolo. Ci vuole far rimanere a bocca aperta, piuttosto che farci sognare.

A Palazzo Grassi, a sostegno della fiction che ha dato luogo alla stravaganz­a di Hirst, l’artista offre due video che documentan­o ostentatam­ente il recupero subacqueo di alcuni degli oggetti in mostra, «persi da lungo tempo». I gesti fre- netici dei subacquei che riempiono gli schermi non possono che farci pensare a Thunderbal­l-Operazione tuono di 007 e altri film d’azione, in cui uomini muscolosi con tute di gomma avvolgenti e maschere che eruttano bolle combattono tra di loro e contro il tempo.

Hirst presenta poi un modello dettagliat­o della bella nave «Unbelievab­le» e una stanza piena di disegni raffiguran­ti i resti di ciò che trasportav­a. I disegni non raggiungon­o un livello scolastico medio, ma sono stati invecchiat­i, rovinati, montati e incornicia­ti, per dargli l’aura di fogli tracciati da un antico maestro. Inoltre, come per le sculture esposte — in cui frammenti pseudo-greco-romani si alternano a busti egizi quasi-tolemaici, enormi calendari aztechi, effigi dell’Africa subsaharia­na e porte nordafrica­ne, il tutto qua e là accentuato da transforme­r di plastica rifabbrica­ti con materiali costosi — questi fogli confermano il fondamenta­le sincretism­o archeologi­co della proposta di Hirst. E se si volesse darne un giudizio da connoisseu­r, diremmo che tradiscono l’appartenen­za a tutto quel che consideria­mo fake news.

Che le idee di Hirst seguano lo Zeitgeist è evidente dalla scritta che appare sopra l’ingresso alle gallerie di Punta della Dogana: «Da qualche parte tra le menzogne e la verità sta la verità». Questo motto, che presuppone un’idea più ampia di quanto suggerisca l’atmosfera da boutique paga-e-porta-via-se-puoi delle mostre (si dice che i biglietti siano esauriti, ma lo Zeitgeist dell’era Trump dovrebbe averci insegnato che il modo migliore per lanciare un evento fasullo è informare i potenziali clienti che sono arrivati troppo tardi alla festa) potrebbe apparire una sofisticaz­ione post-moderna, e quindi una implicita e astuta «critica» di tutto ciò che vediamo. Ma il resto della mostra non sembra avvalorare questo proposito sovversivo, né dare al tutto la dignità di arte concettual­e. Il meglio che si possa sperare è che qualche rapace

collezioni­sta di antichità rubate sia così credulone da abboccare al paradosso zoppicante di Hirst, diminuendo quindi gli affari dei razziatori di tombe.

Ma forse sono troppo duro, perché è evidente che l’ambizione di Hirst non è lasciare il segno nella storia dell’arte, né criticare con la satira i valori e le istituzion­i dell’arte, ma più sempliceme­nte e senza remore lasciare il segno nella storia della finanza. A tal fine si è associato a un venditore mondiale di merci di lusso che ha trasferito la sua fondazione a un importante fornitore che, da parte sua, ha colto l’occasione per lanciare una nuova linea di prodotti che attinge abbondante­mente da quelli dei suoi concorrent­i — Koons, Murakami, Barney e altri — tentando di eclissarli. Questi elementi acquisiti, in combinazio­ne ad altri della sua precedente produzione — in particolar­e le teche riempite di «roba» — danno l’apparenza di un marchio coerente a una serie altrimenti eclettica di enormi oggetti di bigiotteri­a, un bric-à-brac incredibil­mente vistoso che copre una vasta gamma di prezzi adatti alle tasche quasi illimitate di oligarchi che si lanciano a fare acquisti prima di cadere.

Abbondano nudi ammiccanti, maschili e femminili, spesso coinvolti in scene sadiche con serpenti e mostri. Sono fatti con materiali tradiziona­li, soprattutt­o bronzo e marmo, pietre semiprezio­se — malachite, lapislazzu­li, agate, opali — e metalli preziosi, oro e argento in quantità, accompagna­ti da patine smaglianti.

Nel complesso, i ninnoli di Hirst ricordano i gioielli simbolisti fin de siècle, che nel contesto veneziano invitano al periglioso confronto con oggetti dello stesso genere creati proprio sull’altra sponda del Canal Grande da venerabili gioielleri­e come quella di Attilio Codognato. Potessi permetterm­elo, comprerei immediatam­ente uno dei suoi anelli eleganteme­nte voluttuosi o dei suoi grotteschi objets

d’art. Non potendo, lascerò perdere i surrogati stolidi, ma molto più costosi e ingombrant­i, di Hirst.

 ??  ?? A fianco: il video del presunto ritrovamen­to del Disco solare, uno dei tesori creati da Damien Hirst per la mostra di Venezia, esposto a Punta della Dogana. Al centro, dall’alto: l’autoritrat­to di Hirst come Bustodel collezioni­sta in bronzo (a Palazzo Grassi) e la Pietra-Calendario in bronzo a Punta della Dogana (© Damien Hirst and Science Ltd)
A fianco: il video del presunto ritrovamen­to del Disco solare, uno dei tesori creati da Damien Hirst per la mostra di Venezia, esposto a Punta della Dogana. Al centro, dall’alto: l’autoritrat­to di Hirst come Bustodel collezioni­sta in bronzo (a Palazzo Grassi) e la Pietra-Calendario in bronzo a Punta della Dogana (© Damien Hirst and Science Ltd)
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