Corriere della Sera - La Lettura
Io ballo da solo: sono arabo
L’Italia ospita sei giovani coreografi che si esibiscono spesso senza partner in creazioni su guerra e memoria
Bassam Abou Diab è stato morso dalla guerra in Libano. Ora ricambia, danzando con i denti aguzzi del sarcasmo. In Under the Flesh ha elaborato in chiave coreografica la strategia della caduta che gli è servita per sopravvivere ai bombardamenti: «La parte migliore di una guerra sono i regali e le donazioni. Un amico un giorno ne ricevette più di me, aveva perso i genitori».
Il tunisino Hamdi Dridi si specchia nel ricordo del padre imbianchino. Le memorie inseguono un feticcio di materia del lavoro manuale del genitore, tra latte di vernici e cartoni, mentre Hamdi diventa il prolungamento del padre, le sue braccia, la sua fronte irrorata di sudore. Davanti al pubblico, si lascia animare da quel corpo che non c’è più, ne racconta la storia. «Danzo con calma il dolore, trasformando un tumore in poesia», scrive in una traccia del suo Tu meur(s) de terre, duetto ideale tra un figlio e lo spettro del padre, realtà e trascendenza. La danza gli ha messo le ali: nel 2010 ha iniziato a collaborare con la grande Maguy Marin.
L’egiziano Mounir Saeed, collaboratore di Karima Mansour, non è sicuramente il primo a vedere in Dante un lato esoterico: per lui il poeta fu illuminato dal sufismo e, lungo la rotta tra Firenze e lo spiritualismo orientale, Mounir legge connessioni invisibili ai più nella coreografia What about Dante, suggerita dalla lettura dell’Inferno della Commedia.
Artista e manager culturale, Sharaf Dar Zaid vive sulla propria pelle, dialetticamente, la storia della Palestina. La sua performance To
be… è stretta tra l’idea dei confini e il conflitto che divide il rispetto delle regole sociali dall’alienazione. Le uniche leggi a cui si piega, invece, il libanese Guy Nader, attivo dal 2006 a Barcellona al fianco di Maria Campos, sono quelle del ritmo e della musicalità che scandiscono il suo TTTTTT, acronimo di Time Takes
The Time Time Takes, partendo dal concetto di tempo e ripetizione. Anche l’ecclettico Jadd Tank, libanese ma con studi all’International Affair University of Colorado (Stati Uniti), ha fame di libertà: balla in una corsa febbrile che è, insieme, fiato e metafora di un sogno inseguito, con fatica, all’ombra del mito di Sisifo.
Sono questi i sei giovani coreografi che in- carnano la nouvelle vague della danza contemporanea araba — dominata da uomini under 30 — che si affaccia dal bacino del Mediterraneo. Ci farà visita per quattro mesi nell’inedito Focus Young Arab Choreographers, sostenuto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, attraverso la fitta ragnatela di un nuovo network di 11 associazioni e festival spalmati sulla penisola, dal Piemonte alla Basilicata: si comincia il 25 maggio dalla rassegna Interplay di Torino per proseguire, fino al 23 settembre, a Roma, nella cornice di Teatri di vetro. Spettacoli, incontri e sessioni di lavoro per sostenere il dialogo tra culture e lo scambio di pratiche formative. «L’idea — spiega Gerarda Ventura, direttrice artistica di Anghiari Dance Hub, una delle 11 associazioni del progetto — è di dare visibilità a questi nuovi autori trasmettendo al pubblico italiano il messaggio che gli arabi non solo terroristi. Ci auguriamo sia solo l’inizio di una serie di focus dedicati alla cultura araba. Questi coreografi rappresentano una generazione più fortunata della precedente: hanno voglia di uscire dai loro Paesi per riportare, poi, in patria quello che imparano all’estero».
Ventura si occupa, da quasi vent’anni, di progetti di danza contemporanea in Paesi arabi attraverso scambi con l’Europa: «Furono avviati con un network internazionale oggi dissolto, Dbm - Danse Bassin Méditerranéen. L’occasione di ripartire con un piano più articolato si è presentata al festival del Cairo, l’anno scorso: Bipod – Beirut International Platform of Dance, organizzato dal coreografo libanese Omar Rajeh; 7 festival italiani hanno visionato i lavori di giovani autori, poi selezionati per il focus italiano».
Il fatto che siano tutti uomini non è un caso: «Nel mondo arabo, tranne che in Tunisia, prevale la coreografia maschile. È un fatto generazionale: una ventina d’anni fa — spiega Ventura — erano soprattutto donne con formazione di danza classica appresa da insegnanti ex sovietici. Nella danza contemporanea che si è sviluppata in seguito si sono fatti avanti gli uomini che arrivavano dall’hip hop». I ventenni di oggi non godono di sovvenzioni pubbliche e, per la maggior parte, si mantengono grazie all’insegnamento. «Con le strutture governative — afferma la direttrice — non hanno quasi mai dialogo perché sono artisti indipendenti».
La Tunisia sta cominciando forse ora a erogare alcuni fondi, mentre la Palestina aiuta molto i propri artisti. Ma sono per lo più il Goethe Institut, il Centre Culturel Français e il British Council a offrire agli autori sostegno economico e possibilità di viaggiare. Al Cairo gode di tutele governative solo il Balletto del Teatro dell’Opera diretto dal 2004 da Erminia Gambarelli, un’ex solista della Scala che si è trasferita lì dopo aver sposato un ballerino del posto».
Ne risulta che i giovani autori, per fare di necessità virtù, puntano sul format del “solo” coreografico, di cui sono anche interpreti, utilizzato come biglietto da visita. «Le ragioni — conclude Ventura — sono due: da una parte c’è la volontà di lavorare su se stessi per individuare un proprio stile creativo preciso, dall’altra l’impossibilità di pagare danzatori di qualità per presentare all’estero le proprie coreografie». Da ciò sgorgano questi assoli intimisti. Racconti autobiografici, impastati di emozioni.