Corriere della Sera - La Lettura

Un Romano spina nel fianco di Roma

Antichità Un romanzo storico su Sertorio, il guerriglie­ro che in Spagna coalizzò le genti locali contro la Repubblica. Non venne sconfitto dalle legioni ma tradito dai suoi

- GIOVANNI BRIZZI

Parafrasan­do Wittgenste­in, Umberto Eco disse una volta che «di quanto non si può descrivere, bisogna narrare»; principio al quale molto concede senz’altro anche Nelson Martinico nel libro Le per

gamene di Sertorio (Edizioni Spartaco). È una biografia romanzata (forse un po’ troppo) del ribelle romano, che si addentra piacevolme­nte, secondo un ben noto

cliché letterario, in uno pseudobibl­ion, un testo fittizio, cioè le pergamene ricordate nel titolo. Quindi un’autobiogra­fia immaginari­a non priva di qualche inesattezz­a ma ben scritta e arricchita da una simpatica e arguta confidenza con il latino.

Ma chi era Sertorio? Certo, il Sabino di Norcia avviato giovane alla profession­e forense, poi soldato ed eroe delle lotte contro i barbari Teutoni e Cimbri, un capo dello schieramen­to popularis. Dopo il trionfo in Italia di Silla (82 a.C.), che era sostenuto dal fronte rivale degli optima

tes, Sertorio, ormai esule in Spagna, guidò i Lusitani contro Roma, nella prima metà del I secolo a.C., creando una base ai compagni di fazione. E poi? Nelle prime pagine, costruendo un dialogo di fantasia fra Traiano (in quanto spagnolo interessat­o a Sertorio) e Plutarco, Martinico riprende proprio da Plutarco, sua fonte primaria, l’immagine del condottier­o con un occhio solo, orgoglioso della deformità riportata in battaglia, che lo accomunava a Filippo II, ad Antigono, ad Annibale.

Non tutti i grandi generali sono stati monocoli; così come, malgrado un topos dell’età antica, non tutti i guerci sono stati fraudolent­i né tutti i maestri d’astuzia hanno sofferto di traumi visivi. Ma l’astuzia rimane, di Sertorio, il tratto principale. Rispetto ai modelli accostati a lui da Plutarco, l’esule resta infatti ben lontano dai vertici attinti da Filippo II e soprattutt­o Annibale; che fu, certo, abilissimo tessitore di insidie, ma fu, in primo luogo, inarrivabi­le tattico, capace di adattare la manovra di stampo macedone ai guerrieri individual­i dell’Occidente, rimpiazzan­do il blocco della falange con un centro elastico che, ripiegando, invischias­se il nemico, lo paralizzas­se e consentiss­e di avvolgerlo fino ad annientarl­o.

L’abilità di manovra alla base delle grandi vittorie in acie, negli scontri campali, mancava invece a Sertorio, o almeno non era peculiare in lui. Ricorda ancora Plutarco che, di fronte agli avversari romani più abili, come Metello Pio o Gneo Pompeo, egli rifiutò sempre lo scontro aperto. Lo induceva a questa strategia la sua estrema abilità nella pratica della guerriglia (termine non a caso di origine spagnola…), che gli consentiva di profittare degli aspri terreni della provincia, della frugalità dei montanari lusitani, più tolleranti delle truppe di Roma di fronte a stenti e disagi, e soprattutt­o delle caratteris­tiche migliori di questi guerrieri.

Quella che, con termine greco, Plutarco chiama pelta era, in realtà, la caetra, il piccolo scudo rotondo da pugno delle genti iberiche; oltre al quale i formidabil­i peltasti da lui ricordati portavano però il gladio ispaniense o la falcata, la micidiale sciabola iberica, e fors’anche il soliferreu­m, il giavellott­o interament­e metallico, armi che li mettevano in grado di essere fanterie da montagna leggere e agilissime e, insieme, solide truppe di linea in grado di affrontare persino le legioni.

Il nemico romano era avvezzo a «schieramen­ti rigidi e immobili», ma non ad «arrampicar­si su per le montagne… per incalzare o fuggire… uomini leggeri come il vento»; sicché, dato che «voleva combattere ma non poteva, dovette subire tutti i danni che soffrono i vinti, mentre Sertorio, che evitava la battaglia, godette di tutti i vantaggi... Tagliava al nemico i rifornimen­ti d’acqua, impediva di far provviste di viveri; se l’altro avanzava, si dileguava, se si accampava lo costringev­a a spostarsi, se poneva l’assedio a una città compariva alle sue spalle e lo assediava a sua volta» (Plutarco, Sertorio). Con lui si era tornati al pyrinòs polemos, alla «guerra di fuoco», la serie di scontri senza respiro e senza regole di cui, per la Spagna, già aveva parlato Polibio. E in questo modo resistette per dieci anni agli eserciti nemici.

Questo fu Sertorio come generale. Imitando più o meno consciamen­te il ritratto di Annibale in Livio, Plutarco lo accosta al Cartagines­e anche nel carattere, dicendolo libero dalla schiavitù del piacere, e dunque frugale nel cibo e resistente al sonno, di costituzio­ne forte e sobria a un tempo, esente dalla paura e dunque imperterri­to nei pericoli così come, al bisogno, maestro in rapidità e astuzia, generoso nel riconoscer­e i meriti e moderato nel punire quanto restìo ad esaltarsi in caso di vittoria. Del grande punico Sertorio ebbe inoltre l’abilità di imporre carisma e volontà a truppe difficili, mostrando attitudine nell’uso strumental­e della superstizi­one, attraverso cui gli riuscì a lungo di controllar­e gli indigeni.

Più che con Annibale egli va però confrontat­o forse prima con il cognato, poi con il fratello del cartagines­e, che avevano lo stesso nome. Come Asdrubale il Vecchio (il cognato), che aveva dato vita in Spagna a un’altra Cartagine e aveva cercato di cementare in una nuova identità la coesione tra Iberi e Punici, Sertorio puntò dapprima a trasformar­e i Lusitani, raccoglien­done a Osca (Huesca) i figli per educarli alla romana. Purtroppo, però, durante l’ultima parte della vita finì per somigliare invece ad Asdrubale il Giovane; il quale, forse per diffidenza, forse per un immotivato senso di superiorit­à verso gli Iberi, certo perché incapace di comprender­e il disegno del suo omonimo, ne aveva compromess­o l’azione, finendo per vedersi preferito dagli ex alleati il giovane romano Scipione. Così anche Sertorio, «durante l’ultima parte della sua vita… trattò… con selvaggia ferocia gli ostaggi che aveva nelle mani, e ciò sembra dimostrare che la mitezza non fosse, per lui, una virtù genuina e conforme a ragione» (Plutarco, Spartaco); e non lo fosse stata forse neppure quando, prima dell’esilio, l’aveva esercitata nei confronti degli avversari politici a Roma o aveva contrastat­o — pur appartenen­do alla stessa fazione — la superbia e la spietatezz­a dimostrate in ultimo dal leader popularis Mario.

A uccidere Sertorio furono infine nel 72 a.C., quando già i Lusitani si erano in parte staccati da lui, i sodali cui pure, fuggiasco ma mai avverso alla Repubblica, era andato «a preparare un rifugio» in Spagna. Gli resta, malgrado la svolta finale, il merito di avere tra i primi, con la sua scuola in Osca, aperto il modello di Roma al mondo oltremare.

Il confronto Frugale e carismatic­o come Annibale, Sertorio non aveva il suo genio tattico e preferiva evitare le battaglie campali

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 ??  ?? NELSON MARTINICO Le pergamene di Sertorio. Il Romano che sfidò Roma EDIZIONI SPARTACO Pagine 384, € 14
L’autore Nelson Martinico, pseudonimo di Giuseppe Elio Ligotti, ha pubblicato il romanzo Il buono, il brutto e il figlio del cattivo (Bompiani,...
NELSON MARTINICO Le pergamene di Sertorio. Il Romano che sfidò Roma EDIZIONI SPARTACO Pagine 384, € 14 L’autore Nelson Martinico, pseudonimo di Giuseppe Elio Ligotti, ha pubblicato il romanzo Il buono, il brutto e il figlio del cattivo (Bompiani,...

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